Tuffi/66
Ancora sul turismo, Freakonomics, principio di Peter, letteratura nella formazione cristiana, nomi da moglie
Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
Questa introduzione circolarmente didascalica e morettianamente autoreferenziale è un tentativo di SEO, se vuoi ti puoi iscrivere qui sotto.
Ancora sul turismo. (ne abbiamo già parlato in Tuffi/65 e Tuffi/11)
Una postilla. Quello che in fondo volevamo dire, la scorsa settimana, dicendo che il turismo ha i millenni contati è che - sembrerà banale dirlo ma poi spiegheremo meglio - il turismo non è una tendenza fondamentale dell’uomo ma è una delle tante forme accidentali di accumulazione che si sono rese disponibili all’umanità.
Da almeno due generazioni i 20-30-40enni viaggiano compulsivamente e, se interrogati sul perché lo fanno, non ritengono di dover spiegare ulteriormente. Il viaggio sembra essere una ragione autosufficiente, autoesplicativa. Non c’è neanche bisogno di quell’illusorio passetto della “conoscenza di altri popoli”, “altre culture”: quella è già una spiegazione “colta”. Il turismo oggi è per la stragrande maggioranza un fine in sé. Un fine interno alla natura umana, un desiderio che è sempre esistito come tale e che, adesso che l’umanità se lo può permettere, se lo permette.
La nostra tesi è che le cose non stanno così. Il turismo è una moda, cioè una forma storicamente accaduta e circoscritta, per quanto origini nel XVII secolo e abbia ancora lunghi secoli davanti a sé. La forza essenziale ed elementare che muove questa moda è il desiderio di accumulazione, quello che i termodinamici chiamano il maximum power principle. In questo caso accumulazione di esperienze, di luoghi, di persone, di culture, di selfie davanti alle meraviglie del mondo, etc. Una forza né nobile né deprecabile, semplicemente una forza naturale.
Insomma, quello che ci preme dire è che l’uomo non è fatto per viaggiare ma è fatto per accumulare e sfoggiare. Prima c’era la cultura libresca, e tutti cercavano solo di essere colti. Ora si è aggiunta una nuova attività da sfoggiare, il numero di paesi visitati nella bio di instagram. Nasceranno nuove forme di accumulazione, nasceranno attività più seducenti ed esclusive, e gli uomini abbandoneranno i viaggi turistici per dedicarsi ad esse.
Se c’è qualcuno che ha ancora lunghi tratti di guida da sostenere, consigliamo un podcast veramente meritevole, Freakonomics. Condotto dal giornalista americano Stephen Dubner, parla di cose interessanti intorno all’economia (sembra un calco dall’inglese ma in realtà è proprio così, sono argomenti disparati ma tutti in qualche modo a contatto con l’economia). Una puntata su tutte (le poche che finora ho ascoltato, grazie alla segnalazione dell’amico Matteo) si chiama Why there are so many bad bosses e illustra una teoria a quanto pare abbastanza nota nel mondo del management aziendale. La teoria, potentissima e semplicissima, è di Laurence Peter si fonda su questo enunciato:
“Ogni lavoratore dipendente tende a essere promosso fino al suo livello di incompetenza”
Le teorie sociali più strabilianti sono quelle che avevamo tutti sotto gli occhi, e in effetti bastano pochi secondi di riflessione per rendersi conto di quanto sia intuitivamente vera. Le persone di un’azienda vengono promosse (cioè spostate verso l’alto nella gerarchia, cambiando ogni volta mansione) finché ottengono risultati eccellenti in quella specifica mansione. Quando finalmente arrivano a una mansione che per qualche motivo non riescono più a fare così bene (per la natura troppo complessa di quella attività, le troppe fila da tenere o troppe risorse da gestire) allora smettono di essere promosse, e solitamente rimangono lì, in quel punto dell’organigramma: proprio il punto in cui performano meno.
[è l’ennesimo podcast che ci trascinerà nel realismo capitalista? sì. è l’ennesimo podcast che non contribuirà e anzi ci distrarrà ulteriormente dal nostro principale obiettivo che dovrebbe essere l’arricchimento dell’uranio, unica via per l’autentica sovranità di pensiero in questo mondo esecrabile e impunemente genocida? sì. eppure, a fine agosto, il tempo in macchina è talmente tanto che ben vengano anche di questi podcast ben fatti e per lunghi tratti osiamo dire brillanti.]
Rassegna catt.: Papa Francesco ha scritto una lettera per manifestare l’importanza che dovrebbero avere poesia e letteratura nella formazione “di tutti gli agenti pastorali, come pure di qualsiasi cristiano”. La lettera è lunga, a tratti molto tenera e brillante, a tratti riepiloga solo tutte le cose deliziose che la nostra civiltà ha pensato intorno alle lettere. Riportiamo solo un passaggio in cui si parla del “compito di nominare”, compito particolarmente caro a questa newsletter - come ricorderanno alcuni amici di lunga data.
La potenza spirituale della letteratura richiama, da ultimo, il compito primario affidato da Dio all’uomo: il compito di “nominare” gli esseri e le cose (cfr. Gn2, 19-20). La missione di custode del creato, assegnata da Dio ad Adamo, passa innanzitutto proprio dalla riconoscenza della realtà propria e del senso che ha l’esistenza degli altri esseri. Il sacerdote è anche investito di questo compito originario di “nominare”, di dare senso, di farsi strumento di comunione tra il creato e la Parola fatta carne e della sua potenza di illuminazione di ogni aspetto della condizione umana.
Teche: Nomi da moglie
È bello, in generale, nominare, dare nomi. Il potere di associare una serie di suoni e segni ad un ente, creare un vincolo biunivoco, equivoco, sinonimo, contrario, e farlo riprodurre presso le altre persone della stessa comunità, e generare indirettamente in loro, tramite quella parola, nuove associazioni, è forse tra le attività più entusiasmanti.
Poi c'è l'affetto delle relazioni. Dare il nome ad una figlia, o a un figlio, sangue del nostro sangue, è una scelta importante. Può ricordare un parente, un antenato, un luogo, un eroe, una battaglia, un mondo. È un'attività così primaria per una comunità che se ne parla ovunque, “Che nome daresti a tuo figlio?” “E se fosse femmina?”
Troppo poco si parla, però, di dare un nome a ciò che più di ogni altra cosa abbiamo scelto di amare: le mogli. La luce dei nostri occhi. Anzi, a dire il vero l'argomento è quasi un tabù. Prima le signore ricevevano in dono, almeno ad un livello sociale e pre-legale, il cognome del marito; oggi sempre meno. Ma mai si è andati fino in fondo in questo atto d'amore fondazionale. E allora eccoci. Come sarebbe bello se potessimo dare un nome nuovo alle mogli. Come sarebbe dolce poter regalare un nome all'altezza di una donna meravigliosa che magari si chiama Patrizia. E invece da quel giorno, sull'altare, davanti ai fotografi e agli amici, sarebbe finalmente una Cecilia, una Flaminia, una Maria Vittoria. E come sarebbe sublime se, rientrando stanchi alla sera col pattino, due giovani amici si ritrovassero a sognare sul futuro, sui settembre della vita, e si chiedessero “Tu come la chiameresti tua moglie?”