Tuffi/23
Italiano traduttivo, daai vs. daii, uniti e isolati, sogno americano, Paolo Benanti, Victoria's Secret
Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
Questa introduzione circolarmente didascalica e morettianamente autoreferenziale è un tentativo di SEO, se vuoi ti puoi iscrivere qui sotto.
Pedante polemica linguistica dal pulpito di un illetterato: si sta sviluppando nel giornalismo culturale italiano una disattenzione alla prosa tale da avere dato vita ormai a un vero e proprio stile “traduttivo”. Siamo tutti ormai stati costretti al poliglottismo da non avere più la capacità né la voglia di curare lo scritto, a quanto pare neanche quando scriviamo di mestiere. Faccio un esempio ma ce ne sono infiniti, da decenni, non dico nulla di nuovo. Sul Tascabile, il portale online della Treccani (quella Treccani), c'è un articolo che a un certo punto dice
Quel 'durante diversi anni', che io sappia, in italiano non ha cittadinanza. Somiglia al 'pendant' francese, o al 'durante' spagnolo, mentre in italiano si dice "per diversi anni". E il calco sintattico andrebbe anche bene, se fatto con consapevolezza e un minimo di ammiccamento al lettore: il calco come maliziosa estensione dell'italiano, come neomorfismo! quello certo, è fichissimo e ci mancherebbe.
Qui invece, almeno sembrerebbe, c'è solo superficialità e sciatteria, o a pensar ancora peggio quella voglia inconsapevole di assumere uno stile grigio, liscio, non solo perfettamente traducibile ma anzi già tradotto, quello che ci piace chiamare stile traduttivo. Uno stile bruttino.
In uno scritto recente del Groupe d'Etudes Geopolitiques - Le Grand Continent, c'è un paragrafo che si chiama “La fine dell’Occidente globale: sempre più uniti, sempre più isolati”. Si riferisce alla nuova presa-di-posizione/autoisolamento che è seguita all'attacco di Hamas verso Israele. È una formula che sintetizza perfettamente il movimento di arrocco che stiamo facendo. Sempre più uniti, sempre più isolati.
Se guardiamo all'altra squadra, in questo nuovo scontro troviamo ovviamente la Cina (che ha difeso piuttosto esplicitamente i palestinesi, rinforzando il suo ruolo di potenza emergente a difesa del Sud Globale), ma anche Erdogan (che ha detto che i miliziani di Hamas sono dei liberatori) e Guterres, il segretario generale dell'Onu (che ha detto che l'attacco di Hamas non è arrivato dal nulla, ma da 56 anni di soffocante occupazione).
Qui c'è un bel commento di Carlo Rovelli alla reazione spaesata di Israele davanti alle parole di Guterres:
Guardiamo in faccia la realtà: le cose per noi si mettono maluccio, o meno bene del solito. Non è neanche più questione di fare i ribelli antioccidentalisti, al contrario è questione di essere realisti e preservare il più possibile i nostri privilegi e il bellissimo pezzo di mondo in cui viviamo. Epperò. L’assoluto monopolio occidentale sul mondo è sull’orlo di finire. Non possiamo più invadere l'Iraq sbandierando finte provette in mondovisione, non abbiamo più le gambe militari ed economiche per sostenere quei livelli di farsa lì. Abbiamo rallentato, non possiamo continuare a spingere sul gas con la sesta marcia. Rischiamo di ingolfare la macchina, per provare a riprendere velocità dobbiamo scalare marcia. (fine della metafora, scusate, mi piaceva).
La competizione si è allargata, la nostra credibilità è indebolita: dobbiamo scegliere bene le nostre battaglie. Con le immagini da Gaza che girano su tutti i social, con la radicatezza della lotta palestinese nell'opinione pubblica araba, musulmana (circa 2 miliardi di fedeli all’Islam nel mondo, un quarto dei viventi) e di tutta la sinistra mondiale, con la radice etnocolonialista inscritta nello statuto e nella storia di Israele, chiediamoci: vale la pena investire il credito residuo che abbiamo su questa battaglia, con condizioni così ottuse e intransigenti come quella dell'ex ambasciatore israeliano in Italia che dice serenamente in tv che vuole distruggere Gaza? Capisco che dall'altra parte della barricata c'è l'Iran, Hezbollah, la Cina, ma ad esempio non si potrebbero negoziare con Israele condizioni migliori? Un’uscita di scena di Netanyahu, un po’ di impegno nell'affrontare seriamente la questione palestinese, magari addirittura tornare a parlare del cosiddetto "diritto al ritorno" dei palestinesi a casa propria? Come Occidente non abbiamo più molti colpi in canna, tre quarti di mondo (a torto o a ragione) ci ridono dietro per i doppi standard che applichiamo ai vari conflitti. Scegliamo le nostre battaglie. Va bene anche difendere la nostra supremazia morale e i nostri valori democratici, ma - a maggior ragione - siamo sicuri di voler affondare di qualche altro metro nel mare globale, sempre più “uniti e isolati”, sulla barchetta di un’etnocrazia che non vuole rinunciare alla purezza della propria razza? Quando ce lo facciamo un onesto bagno di realtà?
Rassegna 1: Frate Paolo Benanti è stato chiamato a far parte del nuovo Consiglio di consulenza delle Nazioni Unite sull’Intelligenza Artificiale. Il panel è di 38 esperti e lui è l'unico italiano. Francescano, teologo, romano, classe '73, sveglio. È un'ottima notizia.
Rassegna 2: Victoria's Secret, la marca di intimo famosa per le sfilate piene di modelle bellissime, da qualche anno aveva deciso di far sfilare modelle non più bellissime ma innanzitutto inclusive. Nel giro di due anni le vendite sono calate al punto che una settimana fa i vertici hanno annunciato di voler abbandonare le “politiche woke” di marketing e tornare (sintetizzo) alle fregne. Di questa assurda, illogica, divertente e pericolosa (per chi ci crede) concezione woke della realtà ne abbiamo parlato varie volte, ad esempio in questa recensione di Barbie (Tuffi/16). Per non tediare ulteriormente, lasciamo al lettore il compito di collegare questo piccolo episodio del mondo della moda alle dinamiche della competizione globale a cui stiamo andando incontro.
Capisco bene che il marketing e l'estetica woke siano noiose e ripetitive, ma i problemi di Victoria's Secret partono da ben prima della nuova strategia. È almeno dal 2017 che si legge del declino del brand (cit degli analisti finanziari di Jeffryes del 2018: There is "little value" left in Victoria’s Secret and Pink and he sees risk that total segment EBIT dollars may be cut at least in half, with Ebitda dropping below $500 million in the medium term), sia a livello di vendita che di attenzione per la sfilata annuale. Non è manco così strano, i modelli estetici cambiano, le aziende d'oro degli anni '90 e 2000, come Victoria's Secret e Abercrombie and Fitch, hanno fatto fatica a riadattarsi e come sempre quando le aziende calano hanno iniziato a uscire scandali più o meno grandi e infamate più o meno gravi su manager, fondatore, gestione interna. Non darei la colpa alla wokeness (che di colpe ne ha già tante) dell'andamento mediocre di un'azienda che non ha avuto mai altro guizzo oltre una sfilata piena di fregna e soldi e che da dieci anni va al rimorchio di quello che fanno tutte le altre (con l'incisività etc Puma ci ha costruito un nuovo impero, magari sanno fare quello che devono fare).