Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
Questa introduzione circolarmente didascalica e morettianamente autoreferenziale è un tentativo di SEO, se vuoi ti puoi iscrivere qui sotto.
Per chi ha la fortuna di trovarsi fisicamente lontano dal conflitto, è utile solo in parte concentrarsi sulla dimensione umanitaria. Vedo schiere di persone di buona volontà condividere foto strazianti di Gaza, cadaveri, bambini che tengono la mano alle mamme ferite, ettari di macerie senza fine. Ed è giusto, perché la tragedia smuove l'opinione pubblica e mette Israele sotto la lente mediatica e sotto la responsabilità della storia che ha deciso di costruirsi.
Ma non è la parte più importante. Se l'attacco del 7 ottobre di Hamas contro Israele può avere un barlume di senso oltre la mostruosa carneficina, quello è un senso politico. Non ha a che fare con le macerie, non ha a che fare con la mancanza di acqua né di soldi. L'anomalia palestinese, il fatto che da 75 anni parliamo di un fazzoletto di sabbia, la grande ingiustizia per cui è famosa la Palestina è un'ingiustizia politica, non genericamente umanitaria. I palestinesi scelgono ogni mattina di vivere nella merda pur di non abbandonare la posizione. E Israele gli costruirebbe ponti e aerei d'oro se i Palestinesi, come singoli individui, decidessero di rifarsi una vita in Canada o in Argentina o in qualsiasi altro luogo. Ma i Palestinesi, come popolo, decidono di non rinunciare al desiderio di poter vivere nella terra dei nonni (v. Tuffi/21). Soprattutto di questo dovremmo parlare, non di quante persone sia giusto ammazzare dopo che te ne hanno ammazzate milletrecento - è un discorso assurdo, poco interessante.
Lo ridico. Il problema non è solo sulle condizioni più o meno disumane all'interno del carcere, o l'efferatezza della rappresaglia di Israele: quella è la parte fotogenica e più facile del nostro esercizio di indignazione. C'è poi una parte più difficile e politica che siamo a chiamati ad affrontare: l'esistenza stessa di quel carcere, e la legittimità dello stato etnico che è costruito accanto.
Rassegna 1:
Dicevano quelli del Grand Continent che noi europei dobbiamo pensarci “alla scala pertinente”. Internamente all'Europa, ha senso affrontare alcune questioni al massimo livello, fare fronte comune. Si è visto bene con lo choc del covid e la risposta concertata degli stati. Ma esternamente all'Europa, la scala pertinente alla quale ci pensiamo non è detto che debba essere sempre quella massima. Concettualmente, forse come riflesso ereditario della grandeur storica, ci troviamo sempre a paragonarci a Stati Uniti e Cina, quando è evidente che - almeno su alcuni piani - giochiamo in un altro campionato. E da questo paragone sbagliato deriva una continua frustrazione geopolitica, e forse anche un oggettivo e progressivo peggioramento delle nostre condizioni e capacità. Forse ha senso fermarsi un attimo e chiedersi: in quali ambiti siamo una potenza e in quali ambiti non lo siamo? E qual è la strategia più adatta da utilizzare, ambito per ambito, per ottimizzare la nostra funzione globale?
Su questo argomento l'European Council on Foreign Relations ha pubblicato questo bellissimo longform (cosa molto rara per gli articoli di geopolitica - che di solito non affermano nulla - e per i longform in generale - che potrebbero essere riassunti in un decimo delle parole). Incollo qui il sommario e un paragrafetto significativo.
The world is changing – and European governments are struggling to decide how to position themselves within it.
Middle powers outside Europe are preparing for a fragmented, not a bipolar world, and approaching the emerging order with some confidence. The EU can learn a great deal from their strategies.
The EU has a myriad of interdependencies with other powers and will never be totally self-sufficient. To protect its interests and values, it needs a foreign policy strategy that acknowledges this: strategic interdependence.
The EU should anchor this approach in an understanding of where it needs partnerships – and the potential power it wields within them.
It should prepare for political coexistence and competition, privilege de-risking over decoupling, and invest in key relationships rather than in defending the old order.
The competition between a Chinese-led bloc and an US-led bloc will therefore not define the emerging world order. A new class of middle powers has much more agency than they had during the cold war. These countries are engaged in acquiring their own influence in international affairs and are willing to leverage US-China competition to their advantage or, in many cases, challenge it. Their decisions on their relationships with the superpowers, and with each other, will largely determine where the new world order lands on the spectrum from bipolarity to fragmentation. If collectively these powers choose to align with one or the other superpower, then we may indeed have a new bipolar confrontation. If they opt instead for more promiscuous strategies that seek to avoid strict alignment, we will get a much more disordered landscape.
This paper argues that middle powers are shaping a more fragmented world, characterised by an increasingly transactional approach to foreign policy, for which Europeans are ill prepared. It then sets out a strategy, informed by an analysis of the behaviour and priorities of a selection of middle powers, for how the European Union can defend its interests in this emerging world order.
Rassegna 2:
Sabato scorso sul Foglio è uscita una bellissima intervista di Paola Tavella a Sarantis Thanopulos, presidente della Società Italiana di Psicoanalisi. Trascrivo alcuni paragrafi (alcune parti sono un po’ scabrose, me ne scuso).
Il discorso sulla sessualità è diventato molto confuso, come se si teorizzasse un relativismo estremo che tende al paradosso per cui ogni essere umano ha una sessualità diversa dall'altro, misteriosa e incomprensibile agli altri.
“Fra i giovani la sessualità sta diventando molto problematica, lo vediamo nell'esperienza clinica. Tutte le forme di sensualità e di creatività sono impoverite, va scemando la capacità di vivere la sessualità come un'esperienza piena, in cui niente di noi resta fuori a guardare. Un disastro, perché la sessualità è al centro dell'esperienza umana.”
Come ci siamo arrivati?
“La paura della vita si traduce in paura della sessualità e del coinvolgimento erotico profondo, che non significa solo l'amplesso. Tutte le esperienza culturali sono basate sulla sensualità, il godere di un quadro o di un panorama o di una sinfonia. Oggi si ha paura di vivere veramente. Inconsapevolmente ci si identifica con la morte psichica, ovvero con il non soffrire, non avere tensioni. In una società estremamente precaria, che quindi produce innumerevoli tensioni, quello che permette di scaricarle crea un mercato ricchissimo. Anche la creazione di una realtà artificiale ha un effetto rassicurante, anestetizzante, e si rivolge a chi sente di non poter più gestire il rapporto con la realtà vera, perché è diventata troppo imprevedibile e minacciosa. [...]
In questo contesto cresce la possibilità che un preadolescente subisca un destino deciso e organizzato da noi, in linea con la tendenza a una mutazione antropologica che sta trasformando il nostro rapporto con il mondo e neutralizzando il femminile.”In che senso, professore?
“La femminilità è la capacità di esporsi, di lasciarsi andare all'altro senza calcoli preventivi, ma questo oggi è difficile. Ci sentiamo vulnerabili e precari, quindi desiderare l'altro, abbandonarsi all'altro è percepito come insidioso, ed è sempre più forte la tentazione a trattenere l'altro dentro di sé, a 'essere' anche l'altro. Poiché in ognuno di noi vive anche il sesso opposto, la donna esposta alla violenza contro il suo desiderio è indotta a difendersi in questo modo inconscio: non sono solo una donna, mi appartiene anche il maschio, ce l'ho in me, non ho bisogno di incontrarlo fuori. Ne risulta un assetto psicocorporeo androgino, fondato sul modello erettile della sessualità maschile, sull'esibirsi invece di lasciarsi andare, sul controllare la situazione erotica invece di perdersi in essa. La capacità femminile di coinvolgimento sessuale profondo è fondamentale in ognuno di noi. Il maschio non può godere veramente senza l'attivazione della parte femminile di sé. Abbiamo perso la saggezza degli antichi greci che sapevano come le donne sul piano erotico sono più intense, profonde e significative: per loro l'orgasmo femminile era il paradigma dell'eros. Oggi, invece, tende a prevalere il paradigma idraulico maschile: eccitazione e scarica.”
basta andare in una qualsiasi palestra per constatare da se, il gradiente androgino della donna moderna.