Disclosure of affiliation: sono affettivamente legato alla causa palestinese. Credo sia importante dirlo perché in fondo, come tutte le questioni oltre un certo grado di intricatezza e tragicità, anche il conflitto israelo-palestinese è diventato sostanzialmente una questione di tifo, di appartenenza, di poca razionalità. Razionalità poca ma non nulla, ed è proprio a quell'ultimo pezzettino che ogni persona di buona volontà cerca di aggrapparsi per convincere quelli che ancora non hanno una parte; ma soprattutto molta irrazionalità, affetto, attaccamento spiegabile o non spiegabile.
Questo è Tuffi! Demordiamo.
Una cosa affascinante e assurda che separa l'uomo dagli altri animali è il paradosso della sofferenza. Per gli uomini alcune sofferenze sono più miserabili della morte. Soprattutto quelle che originano dalla mente e non dal corpo. È il caso, ad esempio, dei martiri cristiani. Vado sulla pagina dei relativamente pochissimi (alcune centinaia) che hanno al momento l'onore di una voce su Wikipedia. Apro qualche scheda a caso. Giovanni De Britto, prima di essere decapitato e impalato in India per la sua opera di proselitismo, confessava al sacerdote Francesco Lainez: «Essendo virtù la colpa di cui mi accusano, il soffrire per essa è per me grande gioia». Tommaso Capdevila Mirò, arrestato nel luglio 1936 insieme ai confratelli seminaristi dalle milizie anarchiche, il giorno prima di essere fucilato (aveva 22 anni) scrisse il suo testamento: «¡Viva el reinado social de Jesucristo Obrero!».
E chissà la quantità sterminata, tra santi, beati, conosciuti o ignorati dalla storia, di tutti quelli che hanno scelto la morte a testa alta. È la fine di tutti i martiri, religiosi o civili.
La sofferenza, dicevamo. C'è un popolo che vive ogni giorno nel profondo dispiacere di non poter abitare, o anche solo passeggiare, nella terra dei nonni. Un popolo non troppo numeroso, qualche milione di persone. Alcune di queste, a occhio direi la metà, quella terra non l'ha mai vista e non l'hanno vista neanche i loro padri. Vivono nel ricordo dei nonni, conservano una foto sgualcita di quasi un secolo fa, o le chiavi della vecchia casa, o una semplice bandiera, un drappo con delle geometrie colorate. Nascono profughi, quindi non hanno sogni nuovi ma ereditano quelli degli avi. Per quanto assurdo possa sembrare, è esattamente così. Dedicano l'intera esistenza a coltivare la speranza e il dolore di quel mancato, vietato ritorno. Non cercano la morte in sé, non sono semplici masochisti. Potrebbero vivere esistenze materialmente appagate in tutti gli altri luoghi del mondo, luoghi più freschi, fertili e ventilati. Eppure il dolore di continuare a vivere lontani dalla casa dei nonni è più insopportabile di ogni alternativa.
Finché queste persone esistono, cioè finché sono vive e disposte anche a dare la vita per la causa, bisogna fare i conti con questa storia - senza raccontarsene di altre.
Alcuni punti sparsi:
Mi colpisce il livello del dibattito nei media italiani in questi giorni. Mi sembra incredibilmente equilibrato, cioè meno supino del solito nei confronti di Israele. La cosa incomprensibile, almeno all'apparenza, è che ciò avvenga dopo il massacro di 1200 israeliani. Mentre per ogni attentato di due-tre morti israeliani (preceduti e seguiti da decine di morti palestinesi, ma non voglio parlare di questo) degli ultimi decenni la condanna mediatica era unanime e la dimensione del dibattito rimaneva umanitaria, stavolta, dopo l'ecatombe di una settimana fa, si è tornati a parlare del problema politico della Palestina. Non so se il paragone con gli anni di piombo regga, ma in questa settimana è riemerso in modo chiaro il significato di un’espressione perlopiù vaga e giornalistica: il senso strategico di “alzare il livello dello scontro”.
Il dibattito è così elevato che qualcuno riesce finalmente a dire sui media generalisti una cosa ovvia: l'opzione “due popoli - due stati” è ridicola, da decenni. Se mai è stata percorribile, non lo è più, al punto che non è neanche più desiderabile. I palestinesi oggi desiderano una sola cosa: poter vivere in tutta la Palestina, liberamente. E questo desiderio non è compatibile con l'esistenza di uno stato etnico ebraico. Quello che i palestinesi vogliono è un unico stato non-etnico, in cui tutti i popoli di Palestina (ebrei e arabi, musulmani cristiani o di religione ebraica) possano vivere e passeggiare liberamente.
“Tutti i modelli sono sbagliati, ma alcuni sono utili”. Alcuni modelli sono utili in alcuni momenti e poi perdono di utilità, o vanno aggiornati. Nelle fasi acute di una guerra, molti modelli diventano obsoleti. Se nella popolazione c’erano delle differenze di visione, durante la fase acuta di una guerra le posizioni si compattano. Credo abbia poco senso separare “Hamas” e “popolazione di Gaza” in questo momento. È come dire che in Russia oggi non sono tutti Putiniani, o in Israele non hanno votato tutti Netanyahu. Ok, e quindi? Perché oltre al discorso della complessità che collassa, c'è quello della responsabilità dei popoli davanti alla storia. Dire che Hamas è un’organizzazione terroristica è diventato un mantra per esorcizzare la paura e raccogliere il nemico dietro un’etichetta che rappresenti il male assoluto. Per quanto possa non piacere, Hamas governa a Gaza. Esistono forze di governo terroriste? Esistono popoli terroristi? Kim Jong-Un è un terrorista? Siamo sicuri che non stiamo facendo confusione tra parole?
(Nota: queste cose, dopo aver scritto la newsletter, ho scoperto che le dice molto meglio Luca Sofri in un pezzo sul suo blog, vedi link più avanti).In fondo questo tic lessicale ci viene perché non vogliamo riconoscere la radicalità della richiesta di tutta la società palestinese, a prescindere dalla religiosità o dalla fazione di appartenenza. Vogliamo separare una popolazione che è molto più unita di quanto ci piacerebbe, vogliamo distinguere civili e terroristi che in realtà sono padri e figli, fratelli e cugini, e che più Israele non presenta soluzioni, più sono uniti dalla disperazione.
In molti, colpevolmente, ci siamo illusi che la tragedia palestinese potesse lentamente e silenziosamente svanire dai radar della nostra preoccupazione. Non è stato così.
Rassegna 1: Questa puntata su Spotify di Globally, un podcast di politica estera prodotto da Will Media e Ispi, con ospite il magistrale straordinario maestro assoluto Ugo Tramballi. Giornalista e storico corrispondente estero di varie testate, Tramballi non dice niente di straordinario, ma avere il coraggio di dire le cose normali in questo momento è un piccolo atto di eroismo civile. Speriamo che non gliela facciano pagare.
Rassegna 2: Questo articolo di Wittgenstein, cioè Luca Sofri, direttore del Post.
Estraggo un pezzetto:
“Anche conoscendo bene l’uso di strategie terroristiche da parte di Hamas, scegliere quindi come definizione limitata e prioritaria di Hamas la parola terrorista è fuorviante e semplificatorio, rispetto ad articolare di più una sua descrizione; oppure risponde alle intenzioni di un giornalismo per cui la parola “terrorista” serve come espressione di disprezzo, e che usa quindi le parole come statements e non per spiegare le cose: scelta legittima ma diversa da quella che fa il giornalismo del Post ogni giorno. Chiunque sappia poco della storia di Israele e della Palestina – ovvero la stragrande maggioranza di noi – e a cui si descriva Hamas come un “gruppo terroristico palestinese” se ne farà un’idea del tutto inadeguata, assimilandolo alle Brigate Rosse o all’IRA, se sa cosa sono, o a compagini occulte, clandestine e circoscritte (ancora l’altroieri una persona adulta su Twitter vittima di queste semplificazioni non credeva possibile che Hamas, che governa Gaza, abbia degli uffici). Hamas a Gaza è un partito, è un’istituzione, vive alla luce del sole e dispiega quotidianamente le sue attività: è una organizzazione di una scala che va spiegata, che viene spesso assimilata dai media internazionali a un governo (ma anche dai governi democratici: e pure da Israele, che ci parla e ci tratta), e che non si può ridurre a un’etichetta delimitata e poco significativa se si vuole informare bene."