Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
Questa introduzione circolarmente didascalica e morettianamente autoreferenziale è un tentativo di SEO, se vuoi ti puoi iscrivere qui sotto.
La cosa più desueta che sostiene la Chiesa non è la trascendenza ma l’arbitrio. di trascendenza è ancora pieno il mondo, chi fa yoga, chi va dalla cartomante, chi abbraccia gli alberi etc. Quello che ci è diventato intollerabile è pensare di essere liberi, e in particolare liberi di compiere il bene o di compiere il male, e che questa scelta sia nelle nostre mani. possiamo accettare tutto, tranne di essere sovrani. La scienza d’altronde ha fatto grandi passi, ha ingrandito il suo dominio a spese dello spazio ignoto in cui pensavamo di comandare noi liberamente, è riuscita a spiegare in modo convincente e statisticamente apprezzabile moltissimi meccanismi, anche interni all’uomo (psicologia, psicanalisi: parliamo di voi). Molti non vuol dire tutti, e per un problema logico in qualche modo riconducibile a Gödel è probabile che nessun uomo potrà mai accettare fino in fondo di essere completamente non libero. Eppure, se non completa, a questa preponderanza del condizionamento, del dato esterno, ci siamo abituati bene, ci siamo quasi adagiati. Alzi la mano chi si fa ancora scrupoli etici! Veniamo agiti, dedicando anche molte energie psichiche a “guardarci” mentre le forze esterne ci agiscono e ci conducono all’unica scelta possibile, quando “solo apparentemente” sembrava esserci un bivio. Questo autolassismo sembra essere una cifra notevole di questi tempi, e le implicazioni sociali sono ancora inesplorate. Dalla dubbia applicabilità del codice penale a quasi ogni reato, fino al senso delle elezioni democratiche - non per buttarla in politica, ma ricordiamo che in Romania si sono potute annullare delle elezioni perché “le persone erano state manipolate dalla propaganda estera”. Il passo (all’indietro) nella considerazione dell’essere umano è chiaro, e probabilmente è anche più realistico cioè meglio approssimato alla verità. anche nella nostra appercezione ci siamo pensati al di sopra delle nostre possibilità, e la diffusione dei dispositivi ci sta riportando coi piedi per terra, nella consapevolezza del continuo condizionamento. non scegliamo quasi nulla, e in effetti, per il poco che possiamo vedere, anche la Chiesa in fondo pare che stia allineando ai tempi correnti la sua dottrina sull’arbitrio (v. l’ipotesi molto cara a Papa Francesco dell’“inferno vuoto”). Amara soddisfazione.
Rassegna stampa 1: Non sono sempre stato fan del lavoro di Not, però il nuovo numero della raccolta Notzine sembra veramente notevole. Soprattutto sembra parlare di cose reali e con una certa rilevanza pubblica. L’editoriale firmato da Simone Sauza e Laura Tripaldi, curatori del numero, inquadra il filo conduttore: la paranoia. Inizia così:
L’occhio era, secondo Charles Darwin, il più grande mistero dell’evoluzione animale. “Supporre che l’occhio, con tutti i suoi inimitabili meccanismi”, si legge ne L’origine delle specie, “si possa essere formato per mezzo della selezione naturale, sembra, lo confesso liberamente, assurdo al massimo grado”. La sofisticazione anatomica di questo organo è tale da far apparire la sua evoluzione naturale un’eventualità inaudita. Per la gran parte della sua storia, in effetti, la vita è stata cieca. Per miliardi di anni negli oceani ancestrali dove i nostri antenati si sono evoluti nessuno ha avuto bisogno di vedere o di essere visto. I primi occhi moderni emergono durante la cosiddetta “esplosione del Cambriano”, tra 545 e 530 milioni di anni fa. Questo periodo della storia della vita è anche conosciuto tra i biologi come una “corsa alle armi” evolutiva. Gusci, mascelle, denti, corazze: è in questo momento che gli animali cominciano a sviluppare sistemi di predazione, attacco difesa sempre più complessi e sempre più spietati. È possibile che sia stata proprio l’evoluzione dell’occhio, la più sofisticata tra le armi da guerra, a innescare questo climax di violenza bio-tecnologica. La storia dello sguardo è la storia della paura. Forse non è un caso, dunque, che anche le guerre contemporanee siano il terreno per l’evoluzione di sempre nuovi sguardi, e che ognuno di questi nuovi sguardi produca nuove forme di paranoia e terrore. I nuovi occhi della guerra hanno lasciato le acque dell’oceano per librarsi nell’aria. I droni hanno cambiato le dinamiche dei conflitti nel ventunesimo secolo: il controllo del territorio da tellurico si è fatto stratosferico, inumano, un’arma senza corpo che ha reso la guerra una forma di telelavoro, uno sguardo che agisce da un luogo invisibile.
Nella stessa raccolta, menzione speciale anche all’articolo di Bifo.
Rassegna stampa 2: un’intervista di Pino Suriano a Franco Nembrini, uscita sul Foglio del 6/2. Si parla di rapporto tra scuola e famiglie, genitori e alunni.
«È un problema di testimonianza, di modelli. Io spesso sfido gli insegnanti con queste parole: da adulti, cosa diciamo di noi stessi? I ragazzi che ci guardano – e i ragazzi ci guardano sempre – cosa vedono in noi?»
— Appunto, cosa vedono?
«Tendenzialmente un mondo di adulti che li deprime o li reprime, e comunque li intristisce ulteriormente. Questa scuola, in molti casi, non solo non accompagna il disagio, ma lo provoca. E allora la domanda è personale: ciascuno di noi dovrebbe chiedersi: io di che speranza vivo? Cosa vive l’adulto di così significativo da poter diventare interessante per i ragazzi?” Senza questo non si educa. Il fatto è che una generazione di adulti non ha speranze sufficienti, certezze di vita su cui guidare i ragazzi.
[…]La cultura è il nesso tra il particolare e l’universale, e questo lo può cogliere la vecchia analfabeta come il più grande scienziato. Oggi, invece, se dopo l’orientamento il ragazzo dice di voler fare il meccanico, il papà e la mamma vanno in analisi a chiedersi cosa non va. Eppure dovrebbe essere proprio la sinistra ad affermare che la persona ha valore a prescindere dal mestiere che fa. Invece, proprio loro hanno contribuito a diffondere l’idea per cui il riscatto delle masse sarebbe stato diventare tutti intellettuali.»
Piccola nota su “Si’ ‘na preta”, complimento urlato da uno spettatore campano all’Ariston di Sanremo all’indirizzo Rose Villain. Su internet molte ricostruzioni etimologiche fanno risalire l’espressione al fisico statuario, alla tonicità, addirittura alla durezza dell’impatto visivo con la pietra, da cui la bellezza della donna-pietra. Non è esattamente così, cioè può sembrare così ma è principalmente un caso, un “false friend”. “Si’ na preta” è una filiazione dialettale, una specie di inside joke del dialetto, derivante dal fatto che “sei bella” in napoletano si dice “si’ tòst”. Essere “na preta” è quindi innanzitutto una sineddoche per indicare ciò che ha la proprietà essenziale di “essere tosta”, cioè di essere bella. Il fatto che “pietra” sia usato in italiano anche per metafore sulla prestanza fisica (muscoli di pietra, etc.) è innanzitutto accidentale, e trascurabile rispetto al nesso etimologico primario.