Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
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Castello Utveggio. Se esiste qualcosa di destra che sia degno, che desideri conservare la fiamma oltre che adorare la cenere (v. Mahler), quel desiderio è innamorarsi di una rocca di luce nella notte sulla montagna in lontananza, mentre sotto la città prima brulica, poi lentamente e distrattamente si spegne.
La rocca di luce rimane lì.
Sopra Palermo, in una dimensione semiceleste, sospeso nel triangolo tra mare e cielo, città e mare, su quell'altare poliedrico che è il monte Pellegrino - che è sia un trampolino per tuffarsi nell'acqua di Mondello, sia un trespolo per ritirarsi in digiuno e ascesi -, oltre al santuario di Santa Rosalia trova spazio il Castello Utveggio. Nessun palermitano lo ha visitato, quasi nessuno ci è mai passato accanto (è in una strada secondaria che si inerpica sulla montagna), nessuno sa se prende il nome da un popolo scandinavo dagli occhi azzurrissimi fedele al dio Üt o se è solo il cognome sgraziato di un architetto del Novecento; eppure è lì, nel paesaggio diurno e soprattutto serale, a rappresentare l'inscalfibilità, quello che resta. Come diceva quello striscione fascio-snob, "Anche se tutti... noi no". Anche se a Palermo tutto muore, invecchia, si ustiona, si secca... quel punto di luce no.
(Polemica editoriale minore, chi non è interessato salti pure). Restando nel Mediterraneo, c'è un articolo di Davide Coppo su Rivista Studio che dice che dobbiamo smettere di romanticizzare l'estetica mediterranea. Tecnicamente è un articolo da hater, nel senso che non spiega perché dobbiamo odiare questa 'estetizzazione'; fa solo delle allusioni al fatto che è odiosa, poggiando su concetti un po' sarcastici tipo 'instagrammabile', etc. Poi però improvvisamente qualcosa su questo 'perché' la dice, la infila in una riga, e indovinate un po'? Coppo si lamenta perché in questa poetica "non emerge mai, in nessun modo, il tema del lavoro, dello sfruttamento, del caporalato, della speculazione edilizia, dell’abusivismo."
Lo avrete riconosciuto: il tic left-impegnato riemerge anche in un insospettabile articolo sull'estetica mediterranea. Ancora una volta, anche su una delle riviste più snob-disimpegnate del panorama culturale italiano, il monopolio woke (ormai usiamo questa etichetta in senso largo, spero ci capiamo) delle argomentazioni banali esige il suo tributo. Non c'è più scampo.
Abbandoniamo gli argomenti di Rivista Studio e affrontiamo la dimensione seria della questione: Mediterraneo, economia, estetica. Se l'Europa ha fatto della desiderabilità di vivere in Europa la sua unica ragione di vita, la sua anima e di fatto anche il suo ultimo motore industriale (turismo, cibo, vino, resort, b&b) non è forse proprio questa estetizzazione a essere la principale leva industriale per promuovere il nostro core business? Volontà di potenza non ne abbiamo, spirito di sacrificio niente, ci crogioliamo nel fatto di essere "il più grande mercato al mondo" e questo in qualche modo ci permette ancora di avere uno stile di vita invidiabilissimo e quindi attrarre molti a vivere qui, tutti gli apolidi e i perseguitati ma anche molti benestanti e ricchi, soprattutto nelle fasi dissipative (pensione e vacanze) dell'esistenza. Come disse il vate Cosmo in quel verso di incalcolabile estensione, “L'Europa è un gigantesco Luna Park”. Se questo è vero, la Commissione Europea dovrebbe finanziare migliaia di Samyoukilis (squisito fotografo di instagram, nonché principale obiettivo dell'articolo di Coppo) e colleghi influencer, col deliberato intento di immortalare e sponsorizzare tutte le anziane signore che impastano gnocchetti a Bari vecchia. Non abbiamo molto altro da offrire. Certamente è una scommessa rischiosa: non sappiamo se un continente intero può avere come ruolo nel mondo quello di semplice meta turistica, e allo stesso tempo pensare di rimanere saldamente nel primo mondo. Ma in questo momento, senza alcuna ironia, è l'unica carta che abbiamo in tasca.
Sta mancando una hit estiva. Una che unisca tutte le genti della penisola. Stiamo forse assistendo alla frammentazione definitiva del gusto e delle bolle? Il reggaeton ha perso la sua verve produttiva, il suo ruolo di musa del mondo? Da qualche parte si sente ancora Missili di Rocco Hunt che però è troppo vecchia, è già stata cantata in un altro periodo dell'anno, esala poca salsedine. Piccola parentesi sull'indie: l'indie non esiste più come corrente artistica creativa, esistono solo i festival indie, cioè le strutture burocratiche dissipative/speculative che sono nate da un vecchio impulso creativo. Esiste l'italo disco (più propriamente il jazz funk italo africaneggiante ballato da stronzetti con la camicia colorata a maniche corte) che è un genere carino e raffinato ma che si esaurisce presto, anzi ha già rotto il cazo e per di più vanta un solo gruppo, i Nu Genea, più qualche altro progetto* parallelo. Chissà se è calcolabile questa variabile dei generi musicali: l'esauribilità più o meno rapida di un genere. Quanto rapidamente un genere diventa stucchevole ed esaurisce le cose da dire. Ad esempio, il post-rock è stato abbastanza capiente, ha fatto campare una decina di band di altissimo profilo e una cinquantina di media classifica. Ci ha messo 20 anni a rompere il cazzo, a chiudere il cerchio e smettere di rinnovarsi. L'indie italiano una decina. La rinascita dell'italo disco 3-4 anni, e soprattutto pochi pezzi. P.s. Liberato è il più grande profeta vivente.
*prende qui inizio la rubrica Techetechetè: ripubblicazione di cose già scritte altrove. Qui si parlava di progetti.
Glossoreati di Bologna. In un'epoca serenamente priva di intenzionalità e di prospettive in grande, ogni microsforzo artistico viene festeggiato con l'esagerazione della lingua che di solito si concede ai bambini: ogni foto è un progetto fotografico, ogni arpeggio è un progetto musicale, ogni disegno è un progetto artistico. Magari anche bei disegni, belle foto, ma dov'è la dimensione progettuale?
Al di là dell'ironia (la maggiore ironia risiedendo nel fatto che gli stessi artisti promuovono questo lessico, senza offendersi), forse stiamo assistendo a una ridefinizione del concetto di progetto: non più qualcosa di intrinsecamente strutturato, stratificato, ramificato, lungo, faticoso, etc. ma tutto ciò che ha richiesto anche solo un grammo di sforzo umano, fisico o mentale. Forse, al di là del valore simbolico e simpatico nell'industria culturale, progetto è la linea di confine che stiamo inconsapevolmente costruendo per distinguere la nostra opera da quella delle macchine. Un ultimo disperato marchio di autenticità, prima di chiudere definitivamente bottega.
Tuffarsi in acqua, ad esempio da uno scoglio o da un trampolino o da un gommone, è un gesto che richiede necessariamente un attimo di fuoriuscita da sé. Quest'attimo è molto lungo ed evidente. Nel momento in cui decidiamo di saltare, il grosso della nostra razionalità viene spento - ovviamente in modo controllato, per permettere ai piedi di staccarsi dal suolo e decidere di entrare nel vuoto. In quegli attimi restano in funzione solo alcuni servizi cognitivi vitali, tipo le luci di emergenza. Questi servizi assistono quindi ‘da fuori’ a una scena di profonda stranezza, una specie di orrore meno intenso. Guardano l'alieno in noi, vedono di che cosa siamo capaci. Certamente in un contesto controllato, ragionevole, di cui sono già stati calcolati tutti i rischi, etc. Eppure, per quell'attimo, ci facciamo paura.