Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
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Già da qualche mese (e ciclicamente da anni) c’è una intera galassia di pagine instagram che ironizzano su Excel, ZucchettiHR, SAP etc. Li avrete visti, sono i meme che dicono “born to [stare immerso nella natura bucolica], “forced to [stare al computer a usare Outlook]”. Questo che chiamiamo umorismo per 30enni è ovviamente allo stesso tempo apparente lamentela oppositiva ma in realtà rivendicazione affettuosa, dimostrazione di status, posizionamento. Non sappiamo se i primi proletari operai delle fabbriche tessili usciti dal lavoro facevano finta di lamentarsi vistosamente del telaio meccanico davanti ai braccianti seduti ai tavoli accanto, quello che sappiamo è che noi siamo questi braccianti. E soprattutto, al di là della vanteria, il punto è l’identità. Il lavoro dà identità, definisce il ruolo nella società. E di questo bisogna tenere conto quando si ipotizzano redditi universali e prospettive di stare seduti sul divano a contemplare l’IA che lavora per noi. Chiediamoci: quali meme condivideremmo?
I casi Abedini e Al-Masri; la dichiarazione di non rispettare il mandato di cattura internazionale verso Netanyahu nel caso venisse in Italia. In Usa, Biden che grazia Anthony Fauci, Trump che grazia 1500 assalitori di Capitol Hill.
Vari casi, più o meno giustificati, più o meno isolati ma tutti capitati nelle ultime settimane. è chiaro che la legge è sempre stata nei fatti un dispositivo elastico al servizio di forze superiori, quindi passibile di scorciatoie, segreti di Stato, eccezioni e privilegi. D’altronde è chiaro che nella teoria, e innanzitutto davanti al popolo, la legge deve essere uguale per tutti. Quanti strappi pubblicamente sbandierati e rivendicati è disposta a sopportare la credulità popolare? Dopo l’èra della post-verità (che sembrava superata col Covid, e invece forse no), entriamo nell’èra post-legge?
Un vecchio meme, trafugato al collettivo Schickposting.
Rassegna stampa 1: Intervista straordinaria a Domenico Starnone, che insieme a Walter Siti, Claudio Lotito e Jorge Mario Bergoglio è tra le poche persone che ci piace ascoltare in Italia. Alcuni estratti:
Al Foglio, ha detto: «Tutti abbiamo un’unica sofferenza da raccontare». Qual è quella che ha raccontato lei?
«La perdita prematura della figura materna, che è stata per me l’acquisizione della mortalità. E poi la paura di non avere strumenti sufficienti per dare forma all’esperienza. Nei miei libri ricorrono personaggi un po’ spaventati dalla loro medietà, che hanno più ambizioni che strumenti per realizzarle. Ho provato a raccontarli, fanno la loro apparizione già nelle Illusioni perdute di Honoré de Balzac, attraversano tutto il ’900 e diventano una marea montante negli ultimi decenni. È una folla che giustamente vuole dar prova della propria eccezionalità, ma scopre che nell’epoca dell’eccezionalità di massa è l’eccezionalità a sparire».
Quando sarà pubblicato l’ultimo libro nella storia dell’umanità?
«La letteratura diventerà non necessaria quando qualcuno inventerà un’app che ci renderà tutti trasparenti. Il problema che la letteratura affronta è la sostanziale inconoscibilità dell’altro. Sa quando diciamo: credevo di conoscerlo, ma mi sbagliavo? Questa opacità è il motore della letteratura, il suo nutrimento. Se ogni pensiero o intenzione diventa visibile, ci saranno fiumi di sangue ma nemmeno un rivolo di inchiostro».
Rassegna stampa 2: a dimostrazione che Il Foglio purtroppo ha fatto anche cose buone, sabato scorso c’era questo articolo di Fabiana Giacomotti, “Cappelli che parlano”, su Melania Trump e dintorni. Qui sotto l’incipit:
Per essere l’abbigliamento un “tema risibile”, come ti scrivono quelli che non hanno studiato antropologia, ma nemmeno storia, sociologia, economia, insomma quelli che in genere non hanno studiato niente ma vanno in crisi quando devono partecipare alla prima serata mediamente importante della loro vita e non sanno che cosa indossare per non fare la brutta figura che poi in genere fanno, bisogna dire che il cappello di Melania Trump alla cerimonia di giuramento del marito a quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti tiene banco da una settimana.
A dimostrazione che non si tratti di un “cappellino”, come minimizzano sempre i saputi per marcare la loro superiorità intellettuale, di solito certificata dalla forfora sul bavero, ma di un accessorio di straordinaria rilevanza politica e simbolica.
Sulla tesa rigida, abbassata, di quel “boater” (in francese “canotier”, in italiano “gondoliere”), dal quale spuntavano due mascellone aguzze e una bocca stiracchiata in un sorriso quando proprio non poteva farne a meno, si sono consumate più pagine e pubblicati più meme di quanti ne siano stati riservati al braccio teso di Elon Musk e, a ben vedere, a tutta la cerimonia, che fra tette esposte, shampoo non fatti e selfie tra un ingresso e l’altro, è stata senza dubbio la più stracciona e irrituale che si sia mai vista a memoria d’uomo. […]