Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
Questa introduzione circolarmente didascalica e morettianamente autoreferenziale è un tentativo di SEO, se vuoi ti puoi iscrivere qui sotto.
Avete presente quelle righe che troviamo in chiusura delle posizioni lavorative aperte, in cui si incoraggiano caldamente le minoranze a candidarsi, che non si è mai capito se sono delle semplici pacche morali sulla spalla per gente insicurissima che trova forza e sollievo anche in quei brevi epiteti per una open society o se invece sono degli occhiolini che nascondono qualcosa di più, la possibilità di una spintarella che non tenga solo conto del famosissimo merito?
Bene. Quella cosa, che tra l'altro è simile alle quote e a tutti gli altri meccanismi che chiameremo ‘di redistribuzione artificiale del potere’, negli Stati Uniti a quanto pare ha una storia lunghissima, soprattutto incentrata sul criterio etnico, ed è conosciuta come Affirmative action.
[Sarebbe bello prima o poi fare una rubrica di cose a cui è stato dato un nome volutamente vaghissimo, antipreciso, perifrastico, per un pubblico di iniziati; un significante che intrattiene col significato un rapporto lunghissimo, mediatissimo da decenni di eredità culturali e millenni di lingue morte.]
[Ad esempio uno dei miei preferiti è "gestazione per altri". Ma torniamo a noi.]
La notizia è che la scorsa settimana la Corte suprema americana ha stabilito, con la sentenza "Students for Fair Admissions v. Harvard", che questa ‘discriminazione positiva’ non si può più fare perché è contro la costituzione americana.
Non ho approfondito quanto fossero ambiziose/assurde le richieste dei ricorrenti nella specifica causa (a quanto pare, l'associazione Students for Fair Admissions ha portato l'università di Harvard in tribunale accusandola di discriminare - o di non premiare abbastanza? - gli studenti di origine asiatica nei processi di selezione).
Tutto quello che avevo da dire sul tema del merito e della meritocrazia, cioè su come la meritocrazia può concettualmente essere una porta di accesso per la redistribuzione della ricchezza, ho provato a dirlo qui qualche mese fa.
Una cosa da aggiungere a commento di questa sentenza negli USA è una cosa tangenziale e riguarda i cicli di espansione e contrazione degli imperi. L'affermative action (nome potentissimo, ci sto già andando sotto) è stata una politica disegnata e lanciata nel secondo dopoguerra, la fase storica in cui gli USA avevano - da un punto di vista geopolitico - il vento in poppa. (Nel frattempo, è vero, c'era anche la guerra fredda; però ho l'impressione che oggi abbiano una paura più sincera e dei rischi più profondi).
Insomma, avevano surplus da redistribuire verso l'interno e parecchi problemucci di discriminazione e disuguaglianza tra i cittadini, verso cui indirizzare questo surplus e queste politiche. Oggi invece 1. il gap razziale interno si è ridotto, almeno nella percezione che il mondo ha della società statunitense; 2. la competizione con l'esterno è più pressante; 3. questa competizione non viene a seguito di una guerra, evento tragico e ‘azzerante’, rinnovatore dalla base, ma viene invece dopo un lungo periodo di grande e felice espansione, e un più breve e recente periodo di ascesa di altri attori geopolitici, e relativo restringimento della propria (statunitense) influenza sulle sorti del mondo. Insomma, in questo clima, è chiaro che alcune fasce della popolazione vogliano tornare a criteri di selezione più stringenti, sia per conservare i residui del loro privilegio etnico e/o di classe, sia per tornare a competere per l’egemonia sul mondo con l'obiettivo di vincere, più che di far partecipare tutti.