Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
Questa introduzione circolarmente didascalica e morettianamente autoreferenziale è un tentativo di SEO, se vuoi ti puoi iscrivere qui sotto.
La guerra in Ucraina si sta trasformando mediaticamente in una tragedia anche ambientale. Il crollo della diga di Kakhovka è stato raccontato anche dal punto di vista dei danni ecologici. Su instagram gira un filmato della Gabanelli, con voce quasi rotta dal pianto, che si chiede come sia possibile che non ci sia una pressione internazionale per fermare gli attacchi della Russia, dopo tutto quello che sta facendo all'ambiente.
Questo parziale, ancora marginale (cioè ancora non preoccupante) piano del racconto ci dice qualcosa su di noi spettatori. L'attenzione alla guerra e ai morti quotidiani cala; ambiente e sostenibilità sono la direzione verso cui l'occidente concentra oggi quasi tutti i suoi sforzi, politici, economici, intellettuali, morali. Se non per le braccia mozzate, le gambe saltate, i soldati ammazzati, ci commuoveremo almeno per gli alberi sradicati? O siamo veramente dei senza-cuore?
Una parola sui meme che girano sulle cinque persone (NB: probabilmente ricche) morte nel sottomarino Titan. Non per riaprire l'infinito dibattito sui limiti della satira, quanto per richiamare l'attenzione sulla lente woke che ormai sta percolando anche nel campo satirico. Richiamiamo l'attenzione e diciamo innanzitutto: che palle. Che noia. Ormai ogni vicenda umana viene letta attraverso questa parodia della lotta di classe, quella che potremmo definire in senso ampio “la grande lotta degli svantaggiati intersezionali contro i privilegiati”, e che però a differenza della lotta di classe di un secolo fa non ha neanche l'ambizione di rovesciare strutturalmente il tavolo, ma si accontenta di tutte queste microforme di psicorivalsa, come appunto condividere il memino sul ricco che è morto - magari pensando anche che questo sia un gesto politico. Ripeto: in questa sede non si solleva un problema etico, morale, sulla sacralità della vita e la possibilità di scherzare sulla morte. Si solleva un problema sulla ripetitività e asfissiante pandemicità del filtro woke sulla realtà. Vigiliamo.
Qualche giorno fa, sul quotidiano Domani, c'era questa pubblicità che invitava a devolvere l'8x1000 alla Chiesa Valdese. La Chiesa Valdese nei decenni (ma forse anche nei secoli precedenti) si è distinta per rappresentare la controparte più alternativa e più girotondista dei cattocomunisti, facendosi promotrice di iniziative culturali e politiche anche encomiabili: marce contro la guerra, sponsorizzazione di ogni genere di attivismo, etc.
Purtroppo non siamo qui per parlare di politica, ma di fisiognomia. (Alcuni avranno forse già capito dove andremo a parare). Non conosco il testimonial di questa pubblicità, non so se sia famoso, eppure appena ho guardato la pagina ho notato una chiara assonanza tra questo viso e la Chiesa Valdese, la Chiesa che compete sul mercato dell'8x1000 puntando tutto sull'inclusività. Come con le colonne sonore più azzeccate, c'era una perfetta corrispondenza tra messaggio e contorno. E in effetti, dobbiamo dire ai pubblicitari che ci hanno lavorato, la missione è compiuta, il bersaglio è stato centrato. Questo ci conferma due cose banali che il mondo di oggi spesso cerca di nascondere sotto al tavolo della casualità: 1. esistono visi, corpi, fisiognomie che sprizzano inclusività. Lo studio scientifico di questi pattern tarda a svilupparsi, almeno sopra la superficie del dicibile, mentre sarebbe un campo estremamente interessante. 2. anche solo per scopi nobilissimi, la pubblicità e il marketing hanno come bersaglio la percezione del grande pubblico, e la percezione del grande pubblico si basa sulla conoscenza istintiva, superficiale, periferica. Per larghissima parte, questa conoscenza corrisponde al concetto di stereotipo. Gli stereotipi sono la forma di conoscenza più diffusa e funzionale.
Così come 20 anni fa iniziò a diffondersi la spregevole abitudine adultista di chiamare "colleghi" i propri compagni di università, oggi un nuovo e più subdolo spettro lessicale serpeggia tra i 30-40enni che cercano di costruirsi una patina intellettuale nei loro mondi professionali: invece di dire "l'università dove ho studiato", ebbene essi dicono "la mia Alma Mater". Una prece anche per voi - che in ogni caso brucerete nel purgatorio degli alpinisti sociali.