Tuffi/51
Quanto ci manca Michela, distico sportivo, seconda persona discussioni, tifo come generatore
Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
Questa introduzione circolarmente didascalica e morettianamente autoreferenziale è un tentativo di SEO, se vuoi ti puoi iscrivere qui sotto.
All’interno del nuovo jet set queer-progressista editoriale italiano, l’espressione “Quanto-ci-manca-Michela” è ormai un versetto molto comune, quasi un modo di dire, un’espressione formulare, una frase facile e universalmente condivisibile per rompere il ghiaccio.
Dietro questa frase di lutto, ipotizziamo, si nasconde qualcosa di più del semplice riconoscimento tra simili. Le opere e la vita di Michela Murgia sono state senz’altro una pietra angolare di quella comunità spirituale, ma la malattia e la morte della Murgia hanno dato a quella comunità qualcosa in più. Hanno dato l’oggettività del fatto tragico, portatore di un dolore evidente, chiaro a tutti, incontrovertibile, comunicabile anche al di fuori della comunità di iniziati. Se quella comunità si era fondata intorno a problemi personali e autoriferiti (stare bene nel mio corpo, col mio peso, col mio genere, voler riconoscere come famiglia il mio gruppo di affetti), adesso abbiamo avuto un lutto. Un lutto che ci permette finalmente di provare e di mostrare un dolore comprensibile a tutti, anche agli etero, anche a quelli che non leggono il giornale e le ultime polemiche sull’asterisco o i bagni unisex. In una delle sue più celebri e occulte frasi, Pasolini dice che «la morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi». Un po’ a metà tra queste due posizioni, alcune morti possono essere ben comunicate.
La stagione calcistica volge al termine quindi ripeschiamo dagli archivi questo distico sportivo: L’uso della seconda persona singolare nelle discussioni calcistiche, e Teoria sulla natura del tifo.
Nel parlare di calcio, è ormai dilagato in tutta la penisola l’uso della seconda persona singolare in riferimento alla squadra tifata dall’interlocutore. Chiariamo subito con un esempio: “Tu stai zitto ché l’anno scorso hai perso ad Ascoli”. La parafrasi di quanto appena esemplificato sarebbe: “tu, mio interlocutore, pur non essendo affatto un calciatore professionista né tantomeno coinvolto nell’evento sportivo particolare di cui mi accingo a raccontare, non puoi proprio parlare, perché l’anno scorso la squadra per cui tifi ha perso contro l’Ascoli”. In un primo momento, che per scarsità di fondi PNRR non riusciamo a datare all’interno del ‘900, si era passati ad un intermedio ‘voi’. “Tu stai zitto ché l’anno scorso avete perso ad Ascoli.” Voi, cioè innanzitutto la squadra che tifi, i giocatori, il tecnico, lo staff, i preparatori, e poi in qualche modo anche la curva, le tribune, chi guardava la partita e di rimando tutti quelli che si ritengono tifosi di quella squadra, tutti voi avete perso contro l’Ascoli. Oggi invece il salto è ulteriore: ad Ascoli hai perso tu, direttamente tu, quindi adesso fai la cortesia di stare zitto. Non ci risultano altri ambiti di discussione in cui valga una così intima personalizzazione del discorso. Né parlando di storia (“tu stai zitto ché nel 1571 hai perso a Lepanto”), né di tennis (“tu stai zitto ché due anni fa Nadal ti ha fatto piangere sulla terra”), né in nessun altro campo. È un fatto prettamente calcistico. Restano da capire le origini. Manca agonismo nelle nostre vite, certo, e quindi questo gioco a fare i giocatori in qualche modo ci riempie. Manca il servizio militare, spesso è mancato qualcuno che ci menasse, manca lo sforzo fisico, l’attività all’aperto - esclusi quelli che ad un certo punto della vita abbandonano gli affetti e vivono in funzione del running e della maratona di New York. Mancano ormai un sacco di cose e forse questa seconda persona singolare, questo ‘tu’ che si riferisce a te, che stai qui con me, è un modo di stare più insieme, più vicini, è un liofilizzato di emozioni forti che contiene lo 0,01% di guerra e 0,02% di aggressività, e quindi reintegra la nostra carenza di acciaio. Se è questo il motivo per ora diciamo che va bene così, ma vi tieniamo d’occhio.
Teoria piuttosto seria sulla natura del tifo sportivo. Oltre a tante cose bellissime e nobili di cui non parleremo (la tradizione, i colori, tuo nonno che ti porta allo stadio, la città), in una dimensione funzionale-individuale lo sport può essere visto come un generatore automatico di eventi esterni al pubblico tifante, che influenzano - o meglio determinano, nei casi di tifo più fedele - l'umore che il tifoso deve tenere nei giorni seguenti, cioè fino all'evento successivo.
Il tifoso quindi tifa per delegare all'infuori di sé la causa della sua felicità o infelicità, deresponsabilizzandosi. In questo senso è necessario chiarire un aspetto che potrebbe sembrare equivoco: nonostante alcune tifoserie si proclamino "il dodicesimo uomo in campo" o locuzioni simili, in realtà è chiara la totale irresponsabilità che ogni tifoso sente di avere nei confronti dell'evento. Anche nei casi in cui una certa influenza concreta sarebbe affermabile (è verosimile che i giocatori si carichino sentendo i cori dei tifosi), nel fondo dell'animo del tifoso c'è una chiarissima terzietà rispetto all'evento e al suo esito. Da cui discende, tra l'altro, la gratuità del tifo, che nella metafora religiosa è un gesto strettamente calvinista: i cori vanno fatti perché vanno fatti, non perché abbiano un ruolo attivo nella salvezza. Senza entrare troppo nelle pratiche scaramantiche (di cui ovviamente è pieno il tifo), in prima approssimazione diciamo che tifo e risultato sono per il tifoso cose indipendenti.
Tornando all'umore del tifoso, non importa tanto la vittoria o la sconfitta, come non importa la tristezza o la gioia con cui si affronterà la settimana: quello che più conta è l'adesione, cioè che qualcuno di esterno ci dica esattamente come stare. Questo è lo scopo funzionale del tifo: che il mio umore non dipenda dalle mie azioni. Se poi lo stato d'animo dettato non è solo individuale ma addirittura collettivo, cioè se da quell'evento positivo o negativo non dipende solo il mio umore ma quello di un intero gruppo col quale posso consolarmi o festeggiare (v. le interminabili, quasi litaniche discussioni sulle radio sportive), allora il pacchetto offerto dal tifo è davvero irrinunciabile.
[Un esempio contemporaneo di ulteriore accessorio premium a questo pacchetto di collettiva dettatura umorale è dato dai gruppi di meme sulle squadre, che moltiplicando il risultato per il coefficiente dell'ironia (negativo in caso di autoironia, positivo se ironia verso gli avversari sconfitti) esorcizzano e rendono positivo quasi ogni esito. Questa tecnologia "raddrizzatrice" di ogni segnale in entrata, per i piccoli gruppi di avanguardia generazionale che per ora vi hanno accesso, ha di fatto reso eternamente felici (o almeno non troppo tristi) i tifosi. Non sappiamo se nel lungo periodo questo metadone ironico implicherà una certa assuefazione e quindi perdita dell'originaria devozione/adesione alle sorti della squadra].