Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
Questa introduzione circolarmente didascalica e morettianamente autoreferenziale è un tentativo di SEO, se vuoi ti puoi iscrivere qui sotto.
Quando ci sono le domeniche ecologiche, cioè il blocco del traffico, uno è contento perché si può lamentare del governo (è dolce vivere con alcuni limiti alla libertà), per l’allegria e la novità di prendere i mezzi pubblici, e in fondo per la giustezza della causa; poi la sera riprende la macchina e ha un brivido di gioia. Credo sia la gioia dei fumatori quando si accendono la prima sigaretta dopo un volo lungo. È una gioia che ha a che fare con sé stessi e con una certa idea di libertà; non col valore d'uso. Non è del tutto vero che la macchina è solo funzionale a spostarsi dal punto A al punto B, almeno non per noi che ci siamo cresciuti dentro. La macchina dà una piccola gioia. Quando anche verranno messi tram e metro e bus ovunque, forse non sarà così facile smettere di superare il piacere della macchina.
Qualche giorno fa mi è capitato di rivedere insieme al mio maestro un vecchio video su youtube in cui Antonio Rezza, munito di occhiali a forma di dadi, dice una cosa esilarante sul fatto che tutta la verità sul teatro è contenuta in alcuni libri di Artaud che lui tiene zelantemente nella libreria ma senza alcuna intenzione di leggerli, e poi aggiunge una cosa, un concetto abbastanza noto e potente:
L’arte autoreferenziale è l’unica che abbia un significato. Cioè scrivere per sé stessi, fare dei film per sé, fare teatro per sé: solo in quel momento il teatro diventa un teatro fatto per gli altri invece che rimanere imbavagliati nel filo della comprensione, che poi è il filo con il quale viene impiccato lo spettatore.
In fondo questo è anche quello che diceva Valerio Lundini quando una battuta non fa ridere oppure quando uno ride da solo e si giustifica dicendo: “no, è una cosa mia…” Sì, è una cosa tua, e il gioco è proprio cercare di entrare in quella cosa tua (ovviamente “no è una cosa mia” è a sua volta una battuta, intimista e da iniziati, e anche per questo ci piacque molto). Questo vale sia per la comicità, soprattutto demenziale (che fa ridere solo all’interno di un sistema di riferimento mutato, quasi criptato agli occhi di uno che non conosce quel codice), e in qualche modo per molte opere d’arte. Verrebbe da dire, per tutte le opere che hanno fatto un pezzetto di storia di quell’arte.
Gli autori di maggior successo sono quelli che sono riusciti a costruire un proprio universo e a farci entrare il pubblico. Mentre invece, faccio un esempio per semplice vicinanza temporale, quasi tutte le produzioni Netflix e Amazon Prime contemporanee hanno uno stile di piattaforma che è preponderante rispetto al regista, e questo rende i film meno interessanti e il regista irrilevante. Ora questo potrebbe anche essere una cosa nobile, se il regista riuscisse a scomparire dietro la macchina, ma questa evanescenza dovrebbe essere architettata in nome di qualcosa di più grande, ad esempio un tratto e una poetica interessanti, a loro volta iconici, che vogliano trasmettere qualcosa. Ad esempio, dei cartoni Disney o Pixar non ricordiamo quasi mai il regista, ma non è un problema nella misura in cui quei cartoni emanino abbastanza Disneità. Perché in quella disneità c’è sempre qualcosa di memorabile, c’è un filo conduttore che è interessante seguire, un universo che è interessante frequentare. Mentre con la Netflixità o la Primeità, parimenti non ricordiamo mai il nome del regista, ma l’unico tratto comune delle produzioni che riconosciamo è una certa estetica, assolutamente passeggera e non significativa, e soprattutto la entertainità fine a sé stessa.
Ora è probabile che ciò mi pesi perché per vari motivi sento di stare diventando adulto. E la vita adulta occidentale agiata, correggetemi se sbaglio, ha molto a che fare col problema di come passare il tempo. E questa cosa, forse fedele all’adagio ligabuiano che riecheggia in me [“C’è chi decide di ammazzare il tempo, e il tempo invece servirebbe vivo”], costituisce un problema, fa suonare un allarme.
Insomma, per quanto abbiano probabilmente una funzione sociale importantissima e garantiscano la mansuetudine e la pace tra gli uomini quanto o forse molto più delle forze dell’ordine e degli ammortizzatori sociali, vedere film che sono pensati per far trascorrere il tempo mi fa male, mi ferisce, mi ricorda in modo troppo volgare e offensivo la caducità della vita e in particolare il fatto che stiamo passando senza lasciare alcuna traccia.
Questo film di cui si è parlato per qualche ora sui social network, American Fiction, che sulla carta e da come se ne parlava sembrava quasi “irriverente” perché scherza un po’ sul linguaggio inclusivo e sugli asterischi, si è rivelato l’ennesimo prodottino agghiacciante. Inutile, insipido, che parte provocatorio e poi ha una morale ancora più insopportabilmente corretta. Insomma l’ennesimo passatempo ingegnerizzato sul pubblico, anzi in particolare su noi nicchia di pubblico bianca dai buoni sentimenti e che però “riconoscealcunieccessidelpoliticamentecorretto” (viene voglia di iscriversi alle Pantere Nere a sentirsi pensare queste frasette).
L’arte autoreferenziale è l’unica che abbia un significato. Cioè scrivere per sé stessi, fare dei film per sé, fare teatro per sé: solo in quel momento il teatro diventa un teatro fatto per gli altri.
Rassegna stampa: ho finalmente trovato un argomento per legittimare la dignità del gossip. In questo articolo di The Conversation (per chi non lo conoscesse, una specie di rivista divulgativa usata dai ricercatori accademici) si dice una cosa forte e personalmente molto convincente: più o meno dalla caccia alle streghe (XVI/XVIII secolo) il gossip gode di pessima fama, ma in realtà ha da sempre una funzione evolutiva fondamentale perché veicola informazioni sull’affidabilità dei membri di una comunità.