Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
Questa introduzione circolarmente didascalica e morettianamente autoreferenziale è un tentativo di SEO, se vuoi ti puoi iscrivere qui sotto.
Mi scuseranno gli abbonati maschi, ma questa newsletter è dedicata soprattutto alle donne. Si parla infatti di calcio. In particolare un aspetto particolarmente avvincente per il genere femminile: l’ineluttabile invasività della tecnica nel mito, e quindi l’ineluttabile invasività del VAR nel calcio.
Innanzitutto una nota grammaticale: non c’è nessun motivo di dire “LA” VAR. È come dire “Màrrakesh”: perché lo fate? Non c’è nessun motivo. Fino a prova contraria diremo Marrakèsh e IL VAR. “Video Assistant Referee”. Video Assistente Arbitro. Tre nomi maschili. IL VAR.
Proseguiamo. Vorrei sostenere la tesi che in questo momento il VAR è 1. inesorabile, 2. limitato quindi da estendere, 3. macchinoso quindi da fluidificare.
Inesorabile: il VAR è stato il necessario allineamento di una difficilmente motivabile asimmetria conoscitiva. Da vari decenni, tutti possono guardare il replay e sapere indiscutibilmente se era fuorigioco, mano, fallo, etc. Tutti, tranne l'arbitro. Lo sviluppo della tecnica traccia inesorabilmente il terreno dell’etica, e quelli che rimpiangono la “romantica indeterminatezza” delle decisioni spontanee dell’arbitro sembrano combattere la solita smielata battaglia di retroguardia.
Limitato: quello che non si spiega è il ristrettissimo campo di applicazione del VAR. La tecnica ha esteso il dominio della lotta e del controllo? benissimo, cerchiamo di trarne qualcosa di buono. Non è chiaro perché il VAR possa intervenire solo per sanzionare alcune fattispecie di fallo, e non tutte. In particolare, questo meccanismo ha generato un’ulteriore epidemia di simulazioni, in particolare le esagerazioni: poiché l’immagine video può dire se un contatto c’è stato o non c’è stato, ma difficilmente restituisce l’intensità di quel contatto, molti giocatori vengono sfiorati dall’avversario e autodeflagrano a terra. Un sistema VAR giusto, poiché sanziona con più efficacia tutti i falli commessi, dovrebbe necessariamente perseguire anche tutte le odiose simulazioni. Ricorrere al VAR, e in generale reclamare un fallo, deve implicare un rischio per il richiedente, altrimenti il meccanismo è sbilanciato. I cittadini sono incentivati a intentare una causa solo quando sono nel giusto, perché se si scopre che sono in torto pagano. I calciatori che si accasciano per una carezza devono pagare. Abbiamo gli strumenti.
[Alcuni sostengono che la simulazione rappresenti una parte nobile e teatrale del calcio. Ancora una volta: la tecnica non ci permette più quella sospensione dell'incredulità. Forse il mondo sarebbe più bello se non esistessero le telecamere, ma ormai la simulazione emerge subito con tutta la sua vigliaccheria. Non c'è più spazio per una simulazione cavalleresca. Dobbiamo andare avanti sulla linea irreversibile del tempo.]Macchinoso. Siamo all’alba della novità tecnologica, e tutte le altre recenti e rapidissime novità tecnologiche ci fanno assaporare ancora meglio la granulosità limacciosa di questo inizio dell’epoca VAR. L’arbitro che usa il VAR ci appare come i pionieri del personal computer, che per mandare una mail entravano nella stanza del computer e in tre quarti d’ora riuscivano a spedire quei 6 kilobyte di informazione con grande giubilo del destinatario e degli astanti rimasti in salotto.
Ok federazioni di calcio: abbiamo scherzato, ora è tempo di accelerare. L’arbitro deve essere - esattamente come noi da casa - tutt’uno con la tecnologia: non deve esserci nessuno stacco, nessuna goffa corsetta a bordocampo a guardare il monitor. L’arbitro di VAR deve comunicare live le decisioni in cuffia. Il gioco deve scorrere fluido, i due o più arbitri devono quasi-immediatamente legiferare sul gioco con tutti gli strumenti a disposizione. L’arbitro moderno deve tendere al panòpticon: un’entità materiale e digitale, corporea e spirituale, che aleggia sul terreno di gioco e conosce quasi tutto ciò che avviene, comprese le motivazioni intime dei singoli giocatori. Compresi i loro sogni, le loro aspettative, i falli architettati e mai realizzati. E quei falli, quei sogni, quelle ipotesi, l’arbitro le deve poter giudicare.
Rassegna stampa/1. Leonardo Arigone, quel nostro amico che ci aveva donato ventitré tesi (Tuffi/13) e di cui bramiamo sempre nuove incursioni, un anno e mezzo fa ha intervistato una specie di filosofo del calcio, Wolfram Eilenberger. L’intervista è uscita su Contrasti ed è lunghissima e bellissima, ai limiti del commovente (dice “Giocare a pallone è l’archetipo delle esperienze piacevoli”).
Ne rubo alcuni punti salienti.
La parola tedesca “Verfügung”[disponibilità] ha dentro di sé il termine “Fuge”[giuntura], che indica il serramento di una fessura che può essere chiusa e che quando viene completamente giunta [gefügt] satura lo spazio vuoto. L’indisponibilità [Unverfügbarkeit] del calcio si dà al contrario nelle aperture e nei vuoti, che devono essere preservati con cura. Per spiegare l’importanza degli spazi vuoti si può anche ricorrere alla metafora della rete, che è tanto più resistente quanto più larghe sono le sue maglie. Riempire il vuoto è un errore clamoroso. E credo che il calcio insegni ogni giorno a milioni di persone in tutto il mondo una lezione fondamentale: ciò che è non è chiuso, ciò che si sottrae alla nostra disponibilità è vitale. L’epoca in cui viviamo si illude invece di poter eliminare la contingenza e di poter rimuovere l’indisponibilità dal calcio stesso e dalla società in generale – anche se nel calcio questo processo è purtroppo più evidente. […]
Il rapporto che da bambini si ha con il calcio secondo me è racchiuso in una bella parola tedesca – la parola “Vermögen” [traducibile con “capacità”, “potere” ma anche con “patrimonio”, “ricchezza”]. Il primo significato di “Vermögen” indica che si ha la capacità di fare qualcosa, e il calcio per me è sempre stato in questo senso una questione di capacità: quando da piccoli si riesce in una giocata si ha la sensazione di poter agire nel mondo e ci si percepisce come efficaci. Poi c’è una seconda accezione di “Vermögen”, che indica un tipo di capitale – anche reputazionale. Questo è molto importante per i bambini, perché si occupa una certa posizione sociale – uno standing – in base a quanto si è forti a calcio. E per me il calcio è stato anche un modo per posizionarmi socialmente dato che ero bravino. In tedesco poi c’è ancora un terzo significato di “Vermögen”, che ha a che fare con “mögen” [traducibile con “desiderare”]: da piccolo avevo una passione fortissima per il calcio e lo amavo molto, perché prima ancora di tutto giocare a pallone è l’archetipo delle esperienze piacevoli. L’esperienza di giocare a calcio, alla quale sono personalmente molto grato, è infatti piena di gioia. Questo credo valga anche per gli adulti: per chi nella vita ha preso altre strade – anche strade che hanno a che fare con la speculazione filosofica – il calcio rimane un’esperienza nel senso migliore del termine spensierata. Nel calcio infatti si perde il rapporto con se stessi mediato dalla riflessività e si fa esperienza di quello che Nietzsche chiama “atto puro”. Un noto giornalista sportivo mio amico ha detto una volta che il calcio è come un aspirapolvere mentale [Mentalstaubsauger], perché assorbe tutto ciò che ci circonda e ci lascia sprofondare nell’evento. […]
Se amo qualcosa del calcio è appunto questa capacità di incarnare in modo particolarmente bello le virtù legate alla contingenza, che sono sempre virtù legate anche all’individualità perché l’individualità è costitutivamente in rapporto con l’indisponibilità. In più, per come è strutturato, il calcio è un gioco aperto a quasi tutte le forme di corporeità, dal metro e cinquanta ai due metri e dieci: il calcio trova posto per ogni corpo. È un gioco incredibilmente inclusivo, non solo perché i requisiti per iniziare a praticarlo sono minimi – basta un pallone e due felpe per terra – ma anche per la varietà di corpi che possono accedervi. Non è un gioco così standardizzato. Poi è interessante che – come noto – i sistemi totalitari passati e presenti di tutto il mondo non sono forti a calcio: Cina, Nord Corea…
Stati Uniti verrebbe da aggiungere. [ride]
Gli Stati Uniti combattono la contingenza in altri modi – lì il problema è culturale. Ovviamente nella storia della filosofia pallonara – da Camus fino a Jorge Valdano – c’è tutto un discorso in cui credo fermamente sul fatto che il calcio espresso dalle culture liberali sia migliore. E questo perché – come dici tu – l’elemento contingente del calcio si traduce politicamente in incontrollabilità [Unbeherrschbarkeit]. A proposito della natura politica del calcio ora dico una cosa che ha un po’ a che fare con la mia forma mentis accademica: il calcio – dalle sue origini fino ai giorni nostri – porta dentro di sé la rivoluzione carnevalesca. Nel calcio è molto più probabile rispetto al basket, all’hockey o all’handball che una squadra molto inferiore possa vincere. Perciò nel calcio c’è una specie di promessa protorivoluzionaria che si rinnova a ogni partita.
Rassegna stampa/2. Checco Zalone due anni fa ha fatto questa canzone capolavoro. Mi pare che non abbia avuto la giusta eco mediatica mondiale che meritava. Riascoltiamola. Si chiama “Poco ricco”.