Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
Questa introduzione circolarmente didascalica e morettianamente autoreferenziale è un tentativo di SEO, se vuoi ti puoi iscrivere qui sotto.
L’ultimo proverbio novecentesco vidimato dalla cultura popolare mediterranea è: “Il futuro è dei bori”. Come ogni vero proverbio, a ogni rilettura o salmodìa, possiamo ricavarne un significato diverso, una sfumatura nuova. La prima interpretazione dell’epiteto è che, descrittivamente, i bori sono coloro che conservano le caratteristiche evolutive vincenti, i geni dominanti: la violenza, l’aggressività, la kick-boxing, i canini appuntiti, il borsello, etc. Se facessimo l’esperimento di togliere agli umani la spessa e innaturale sovrastruttura socioculturale (la sanità pubblica, la 104, la Polizia di Stato), nel giro di pochi decenni sopravviverebbero solo i bori. E questo è chiaro.
Ma il futuro è dei bori anche in un altro senso: i bori anticipano il futuro. Non nella conoscenza, ma nella realtà. Non gnoseologicamente, ma ontologicamente. Per fare un esempio che sembra marginale ma è il cuore di questa dinamica: i bori lanciano le mode, il mondo le segue. Non serve entrare nei dettagli dei singoli capi d’abbigliamento, programmi televisivi o acconciature per rendercene conto.
Da un lato abbiamo quindi che il futuro è dei bori, perché sopravviveranno geneticamente e perché la sceneggiatura e la scenografia del futuro la costruiscono loro. Dall’altro lato abbiamo gli esseri umani comuni, con la loro grande paura dell’ignoto, e quindi del tempo ignoto per eccellenza: il futuro. Il futuro ci minaccia, esattamente come i violenti: da questo nasce l’etichetta snob che identifica i “bori”. Noi abbiamo paura del futuro e lo chiamiamo boro, ma quello è già presente. Allora ci chiudiamo in casa e scriviamo i libri colti per rifugiarci dai bori e dal futuro. La storia della cultura alta è la storia dello snobismo che è la storia della paura umana. Cultura, snobismo, paura. In una parola: nostalgia.
[questo bozzetto è uscito sul nuovo numero del Bestiario degli Italiani, a tema Nostalgia. Rivista cartacea dalla cura grafica straordinaria, costa un sacco di soldi, esce quando le pare, però messa distrattamente su un tavolino basso tra i divani fa molto arredamento.]
Sono discretamente deluso dagli amici complottisti. Chiara Ferragni e Fedez si sono lasciati, e a distanza di varie settimane non ho ancora letto la tesi che avrei voluto leggere. È una tesi strampalata, e però se nessuno dei pregiati colleghi col cappello di stagnola si lancia, non possiamo tenerla inespressa (anche perché se non si verifica, pazienza, ma se si verifica questa newsletter può finalmente decollare):
Dopo i vari disastri legali e comunicativi, dopo le scuse, dopo la presa di coscienza che raddrizzare il piano inclinato era impossibile, che per ogni fan che perdonava ce n’erano due che rintuzzavano e rilanciavano con un nuovo sberleffo, una nuova punzecchiatura, e un altro brand si smarcava dai contratti, Chiara e Fedez hanno pensato di accelerare e andare rapidamente a toccare il fondo vasca. Si sono lasciati per espiare pubblicamente la loro colpa e purificarsi nell’unica tragedia che il popolo italiano (Dio lo abbia in gloria, ultimo tra i popoli a essere rimasto vagamente ancorato alla realtà) riconosca come tale, e davanti alla quale è pronto a dimenticare le altre marachelle terrene: la tragedia della separazione di due genitori.
Chiara si farà i capelli corti, pubblicherà una storia alle 4 di notte con quattro amiche in ascensore mezze ubriache, disperate, “forti”, “donne”, che si fanno forza nel buio della improvvisa solitudine; il giorno dopo piangerà sorridendo col trucco colato mentre un figlio la abbraccia nel letto; mostrerà alle fan che la ricchezza non è nulla se non c’è più tuo marito a spegnere la luce sul comodino.
Tempo un paio d’anni tornano insieme, e il popolo italiano (cuore grande e memoria breve, come si conviene agli animi nobili) si rallegrerà, insieme agli sponsor redivivi.
Ho scoperto una cosa. Avete presente l’espressione inglese “level playing field”? L’abbiamo sentita migliaia di volte, abbiamo sempre saputo che vuol dire qualcosa tipo migliorare la concorrenza, appianare gli squilibri competitivi, eppure ogni volta un 5% del cervello mi rimaneva incastrato all’analisi grammaticale di quei tre vocaboli e si chiedeva che ci fa quel ‘level’ lì? Livellare un terreno da gioco? Perché sta lì il verbo, e com’è coniugato?
Bene: oltre a essere un sostantivo, oltre a essere un verbo, level può essere anche un aggettivo. Quel level è aggettivo. Vuol dire piatto. Terreno di gioco piatto.
Rassegna eventi: 5-7 Aprile 2024, Campi Bisenzio (Firenze), alla fabbrica ex-GKN si tiene il Festival di letteratura working class.