Tuffi/39
Fiorello invecchiando, Rohrwacher ASMR, De Rossi Amadeus, gamification vs. playfication, camerieri zelanti
Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
Questa introduzione circolarmente didascalica e morettianamente autoreferenziale è un tentativo di SEO, se vuoi ti puoi iscrivere qui sotto.
Non ho visto molto il festival, ma per un attimo ho visto Fiorello accartocciarsi sotto la sua stessa figura. Fiorello ha una simpatia straordinaria, chi dice che non è un bravo comico mente. Però per qualche attimo di festival mi è sembrato svelare il meccanismo che si nasconde dentro ogni mitomane che si rispetti. Il bravo mitomane deve continuamente fomentare presso gli altri il mito della propria figura, ma a una condizione: non deve mai farsi beccare.
C’è stato un attimo, mi pare, in cui un cantante semisconosciuto ha chiesto a Fiorello se sapesse fare beatbox (rumori con la bocca). Fiorello, se non sbaglio, lo ha guardato non-ironicamente-male, rivelando tutta l’incombente montagna di autostima del vecchio famoso che esige di essere riconosciuto per le sue abilità fin dal più giovane degli schiavi alla base della piramide. A me sta simpatico, ma temo per la sua vecchiaia, soprattutto per la sua vecchiaia pubblica. Deve essere particolarmente dura invecchiare per un mitomane di successo.
Grazie a Vincenzo Cerulli, amico facebook di lunga data che tra l’altro ha anche una newsletter, ho scoperto questa intervista ad Alice Rohrwacher del 2016, in inglese, rilasciata a una specie di scuola di cinema.
Alcune cose:
In un mondo così insostenibilmente pieno di cose da seguire, è necessario avere una regista preferita. Consiglio a tutti, o almeno a tutti quelli che ancora non ne hanno una, di valutare di scegliere Alice Rohrwacher.
Al di là del contenuto, che pure è bellissimo, concentriamoci su una cosa superficiale. La voce. Che voce celestiale. Sembra una specie di ASMR involontario, ma forse è ancora di più. Alice Rohrwacher ha la voce di una santa.
Parafrasando la sindrome di Stendhal, vorrei brevettare la più specifica e delimitata “sindrome di Rohrwacher”, relativa alla pronuncia: cioè lo stupore che ci colpisce quando scopriamo che una cosa si pronuncia in modo molto più meraviglioso di quanto pensassimo. Al minuto 1:22 di questa intervista, siete invitati a svenire quando Alice si presenta e pronuncia alla tedesca il suo cognome.
L’intervista è carina, se avete già adottato A.R. come regista preferita vale la pena ascoltarla. Cito solo un passaggio tra i vari meritevoli. Al minuto 35:50 racconta che una volta era sul set riprendendo un albero di fronte a una chiesa, e a un certo punto deve dare il ciak ma non ci riesce perché prova “vergogna”, shame, perché quella chiesa è troppo bella per essere usata come mera ambientazione delle sue riprese, dovrebbe esserne almeno la protagonista principale, e quindi fa spostare tutta l’inquadratura dall’altra parte dell’albero per non approfittare di tutta quella bellezza inerme.
Volevo fare un discorso lungo citando intere dichiarazioni di Mourinho, De Rossi, Mara Venier e Amadeus. Alla fine diventerebbe troppo faticoso da scrivere e troppo lungo da leggere quindi lo riassumerò, sperando di essere comprensibile. Il 9 novembre 2022, dopo il pareggio 1-1 tra Roma e Sassuolo, Mourinho dice in conferenza stampa che un giocatore (alludendo a Karsdorp) lo ha tradito e per questo la squadra non è stata in grado di vincere. Lo scorso sabato, 10 febbraio 2024, dopo la sconfitta per 4 a 2 con l’Inter un giornalista malizioso ha chiesto a Daniele De Rossi quanto avesse pesato l’errore di Lukaku (che ha sbagliato un gol abbastanza facile in un momento critico). De Rossi ha risposto che a calcio si vince e si perde tutti insieme.
De Rossi è un leader, Mourinho è uno sfigato che fa lo sbruffone quando la ruota gli gira bene. Ma è la ruota che comanda, non lui.
Allo stesso modo, Amadeus è un leader, perché ha difeso pubblicamente l’operato della sua squadra di artisti. Andato a processo da Bruno Vespa qualche giorno fa, si è difeso impeccabilmente dalle accuse rivolte dall’ambasciatore di Israele al festival di Sanremo. La vicenda è nota, chi vuole cerchi il video su internet.
Mara Venier, poveraccia, come ha ben sottolineato Filosofia Coatta in un meme, ci ha ricordato quanto è difficile essere sovrani senza aver arricchito uranio nostrano.
E però un discorsetto bisogna farlo. Si può anche essere misericordiosi con la donna Mara, ostaggio di un sistema più grande e violento etc., però la Mara professionista, la Mara “dirigente” (trasposta in ambito aziendale, una persona che ha fatto carriera e non un soldato semplice) va invece giudicata per l’imbarazzante pavidità. Essere dirigenti impone delle responsabilità, verso il basso più che verso l’alto. Fare scudo ai propri dipendenti, intercedere per loro presso i superiori, essere disposti col loro peso a mettersi di traverso quando i direttori generali dicono cazzate. Dal lato umano sono affari loro e se la vedranno con la loro coscienza, ma è dal lato strettamente professionale che bisogna esigere dai dirigenti una maggiore forza e responsabilità.
Qualcuno (forse Andreotti ma non lo sto ritrovando) diceva che nessun privilegio è tale se è stato meritato. Benissimo: meritarsi il privilegio di essere dirigenti implica essere disposti ad essere il granello che inceppa l’ingranaggio impazzito. Altrimenti eravamo bravi tutti a fare i dirigenti.
Più o meno su questi argomenti, cioè sulle regole del gioco della comunicazione contemporanea (i confini del Pol. Corr.), Raffaele Ventura ha scritto un libro che si chiama La regola del gioco. Alessandro De Cesaris lo ha recensito in questo stupendo articolo. Dico stupendo perché sono stupende tutte le occasioni in cui un concetto che più o meno avevamo in testa come monolitico viene spacchettato in più concetti, e Alessandro prende il concetto di gamification (la trasformazione in gioco di esperienze sociali non strettamente giocose) e dice che in realtà questa può essere di due tipi: gamification, cioè giochi competitivi alla fine dei quali ci deve essere un vincitore, e playfication, cioè giochi in cui l’obiettivo è passare il tempo giocando. È una differenza molto acuta e, per vostra informazione, Alessandro sarà presto uno dei filosofi più rilevanti del dibattito europeo.
Cito un pezzetto dell’articolo, che non spiega niente della questione principale ma è molto bello in sé.
È per questo che quella teatrale è solo un’analogia: quando guardo uno spettacolo posso sospendere la mia incredulità e dimenticare l’attore dietro il personaggio. Nello spazio sociale invece – contrariamente a quanto afferma Goffman – non si tratta di “credere” a ciò che vedo, e anzi è importante non far scomparire gli altri (o me stesso) dietro la storia che viene raccontata. Altrimenti si finisce come quel cameriere di cui parla Sartre in L’essere e il nulla: un cameriere troppo solerte, troppo meccanico, troppo calato nel suo personaggio. Agli occhi di chi guarda, una figura del genere risulta fastidiosa, perché non sembra più nemmeno un cameriere, ma qualcuno che gioca a fare il cameriere. Perché «il cameriere non può essere immediatamente cameriere, nel senso in cui questo calamaio è calamaio, o il bicchiere è bicchiere» (J.P. Sartre, L’essere è il nulla).
A proposito di De Rossi, c’è una frase motivazionale che ho sentito non so dove su di lui e che mi viene in mente nei momenti difficoltà:
Daniele De Rossi: 100 volte a terra, 101 volte in piedi.
Nello scaffale “frasette motivazionali palliative per persone inette” mi sembra tra le migliori.
Bisognerebbe parlare di Trump, della Nato e della sicurezza europea in cui forse si riapre una breccia, di Caracciolo che titola il nuovo Limes “Stiamo perdendo la guerra” ma non ho ancora capito perché (ho l’impressione che Caracciolo sia particolarmente sibillino in questo periodo, sarà che quando c’è di mezzo Israele tutti quanti devono alzare il livello delle metafore di due ordini di grandezza. Ne riparliamo nei prossimi Tuffi (se nel frattempo ci capisco qualcosa).