Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
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Io e Valeria Finocchiaro abbiamo intervistato Dario Salvetti (DS), uno dei portavoce della fabbrica occupata GKN. [Riassunto della vicenda: GKN è una multinazionale della metalmeccanica che voleva chiudere uno stabilimento in provincia di Firenze; da Luglio 2021 un gruppo di operai l'ha occupata].
L'intervista (qui il link) è lunghissima, incollo sotto degli estratti. Nell'articolo abbiamo dovuto mantenere un certo distacco dal personaggio, qui posso sbottonarmi e dirvi che l'importanza di questa intervista sta nel fatto che DS è il personaggio che, se volesse, potrebbe cambiare il panorama politico italiano. Sto semplificando/idealizzando, sicuramente la politica è un impasto di fango cacca crudeltà e determinazione, non è solo discorsi dal palco, ma se fosse solo dolcezza e discorsi dal palco sono abbastanza certo che DS avrebbe facilmente il 30% dei voti, o meglio, incendierebbe il 30% dei cuori degli italiani subalterni, impoveriti, arrabbiati, e farebbe valere le loro ragioni.
Cosa c’è di strano in questa fabbrica? Perché non potete fallire come tutte le altre fabbriche che falliscono? Al di là del capitalismo, della sofferenza dei lavoratori e dell’avidità dei capitalisti, sei d’accordo che nella Storia alcuni prodotti diventano obsoleti, non richiesti e/o non remunerativi e quindi gli imprenditori possono decidere di chiudere?
Nel caso specifico il nostro prodotto non è diventato né obsoleto né non remunerativo. Noi abbiamo fatto scalpore anche perché chiudendo la nostra fabbrica i responsabili della vicenda hanno fatto un disastro industriale e capitalistico, come tante e tanti hanno avuto modo di vedere attraverso gli studi che sono stati fatti. Il semiasse è un prodotto che, ad oggi, va anche sulle cosiddette auto elettriche, fino a prova contraria. Detto questo, non soltanto io penso che alcuni prodotti possano diventare obsoleti, io penso che alcuni prodotti debbano diventare obsoleti (come ad esempio nel caso di tutta l’industria bellica).
Il punto è invece che (soprattutto nel caso in cui non si tratta di qualche piccola officina che per qualche ragione familiare dell’imprenditore che la possiede fallisce) quando una dismissione coinvolge interi settori sociali che influenzano, volenti o nolenti, lo sviluppo di un mondo – o se non altro di un paese -, la decisione sulla conversione (e sul come farla) deve essere sociale. Di conseguenza non può essere lasciata unicamente alle decisioni dei privati, visto che tra l’altro esiste una distanza ormai abissale tra la concentrazione delle decisioni e della ricchezza e invece decine di migliaia di persone, territori, che vengono influenzate da quelle decisioni.
Quindi il tema è che ci sono alcune industrie che un certo punto devono essere riconvertite, ma proprio perché è un fatto sociale, questo fatto sociale va accompagnato con un lavoro di pianificazione sociale.
Nel documentario su di voi fatto da Filippo Maria e Lorenzo Gori “E tu come stai?” a un certo punto dici una frase molto suggestiva: “i posti di lavoro appartengono al territorio”. Puoi approfondire questo concetto?
Se esistono dei distretti, se esistono delle concentrazioni di competenze in alcuni luoghi, è perché alcuni territori producono una divisione del lavoro (non sempre giusta), cioè hanno creato socialmente una propensione a certi lavori. La presenza di un posto di lavoro sul territorio è il risultato di un processo sociale e anche storico. E come tale quel posto di lavoro che io mi sono ritrovato ad occupare - in quanto operaio dell’automotive – si inserisce in una catena che fa sì che prima lì ci fosse la Fiat, poi il passaggio a GKN, e poi infine questo stabilimento con tutte le competenze attorno.
Oltre a questo, il posto di lavoro è anche una storia, ed è una comunità, un contratto. Dentro il mio posto di lavoro ci sono sessanta o settant'anni di diritti, di contratti, di accordistiche, di abitudini sedimentate, negative ma anche positive. Bruciare un posto di lavoro vuol dire quindi bruciare anche quella storia.
Un posto di lavoro è spesso anche un agglomerato di diritti, e quindi in questo caso quello che si sta distruggendo non è solo una competenza tecnica, ma anche un insieme di diritti che questo territorio non si ritroverà più: si tratta della distruzione violenta di una storia.
Hai detto in varie occasioni che è inutile usare un lessico antiquato, che non è un partito quello che voi volete.
Credo che il lessico e le forme siano parti integranti della lotta, e in una lotta può capitare di dover lasciare la posizione perché non si riesce a tenerla, e tornare su una posizione apparentemente più arretrata. Quindi, se il lessico è antiquato o no non lo stabiliamo noi, ma i rapporti di forza, e c'è un momento in cui un lessico viene conquistato dall'avversario: è quello il momento in cui devi lasciarlo per ripiegare su un altro lessico, magari meno scientifico, meno chiaro, meno rigoroso, ma probabilmente più vivo e più efficace.
Pensi che il capitalismo sia superabile?
Siamo pieni di dati che ci dicono che questo sistema non sta funzionando - a partire dal fatto che siamo a un passo dalla guerra mondiale. Siamo talmente sicuri che questo sistema non sta funzionando, tanto quanto siamo dubbiosi sulle alternative che dobbiamo costruire. Questa è esattamente la contraddizione in cui ci troviamo. Nella mia adolescenza politica mi ricordo che le privatizzazioni erano molto popolari, gli anni ‘90 erano il periodo in cui facevi fatica a dire alla gente che non è vero che con le privatizzazioni le cose automaticamente miglioravano, eppure al contempo pensavamo di avere più convinzioni politiche su quali erano i modelli che difendevamo. Oggi invece la situazione si è capovolta: io non trovo difficoltà a parlare male del capitalismo, a discutere con le persone del fatto che questo sistema non sta funzionando; non trovo resistenza, non trovo grossi difensori del sistema, dal momento che la sua inefficienza è sotto gli occhi di tutti; e al contempo mai come oggi la confusione su qualsiasi alternativa possibile regna sovrana a tutti i livelli.
Una domanda che è fallita, cioè che forse non è stata capita, è quando gli abbiamo chiesto
“L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.” L'articolo n. 1 della costituzione è obsoleto? Che ne pensi del reddito di cittadinanza?
e DS ci ha parlato della mancata attuazione dell'articolo 1. Quello che più ci sarebbe piaciuto approfondire è se davvero tutti avremo il lusso/piacere/bisogno schifoso e doloroso di lavorare in futuro, alla luce degli sviluppi dell'AI. Ma è giusto lasciare qualcosa in sospeso, per un eventuale prossimo incontro.
In questi giorni sto vivendo una sensazione strana: non sono spaventato dall'AI, ma non mi va più tanto di fare le cose, leggere, studiare. È una specie di depressione a distanza, una sottile, leggera perdita di senso dovuta al fatto che forse sta nascendo un ente che farà tutto meglio di me. Sto intravedendo una innecessarietà della mia esistenza, mi sento potenzialmente adombrato. Per usare un verbo inglese (dalla newsletter precedente abbiamo deciso che Borges è favorevole), sento che l’IA looms over. Chissà se un giorno qualcuno vorrà studiare questo disturbo. Chissà se gli scacchisti hanno vissuto un momento del genere quando Deep Blue ha battuto Kasparov, o i corridori quando hanno inventato il motorino. Magari è solo una fase, magari poi ci abituiamo a pensarci di un'altra specie, una categoria protetta, impariamo ad accettare il fatto che dobbiamo competere solo tra di noi e che non ha senso voler competere con le macchine. Il problema è che GPT non fa bene solo una cosa tipo correre o giocare a scacchi. Tra alcuni smaliziati filosofi edgy va di moda riferirsi alle IA come "stochastic parrots", pappagalli stocastici, cioè enti che mettono insieme parole senza avere la consapevolezza di quello che dicono. Come se questo nomignolo dovesse rasserenarci, “ahahah ma di cosa ti preoccupi, sono solo dei pappagalli stocastici”. Come se noi non potessimo pensarci (ed essere pensati) solo come dei romantici scimpanzé metafisici.