Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
Questa introduzione circolarmente didascalica e morettianamente autoreferenziale è un tentativo di SEO, se vuoi ti puoi iscrivere qui sotto.
Come ventilato quattro tuffi fa, ho letto il libro di Dario Fabbri, Geopolitica umana. Innanzitutto colpisce l'edizione: copertina blu piattone, blu nazioni unite, blu normie. Guardandolo di profilo, si scorgono addirittura delle pagine dal bordo blu, che identificano i capitoli. Quasi una rivista di automobili. Difficilmente è stato un caso o una mera scelta dell'editore. Rischiando di fare un’ipotesi avventata (e d'altronde quale geopoliticista verrà mai a dire a qualcuno “guardi che la sua ipotesi è un po' avventata”?) credo che questa estetica così pop, quasi poco seria, quasi frivola, sia il tentativo di Fabbri di allontanare gli occhi degli accademici. Sono ben note le vicissitudini recenti di Dario Fabbri (da qui, DF) e l'accademia, la non-tempestivamente-smentita laurea, etc. Da cui è probabilmente nato un atteggiamento di parziale riverenza (ai limiti del malcelato complesso) o almeno di rivendicata alterità. Fabbri lo dice chiaramente: la materia di cui parlo in questo libro non è una scienza. E in fondo è un peccato, perché essere scienza non è un vizietto da sfigati o da altezzosi, ma un modo di discutere su un terreno condiviso avvicinandosi a verità comunicabili e progressivamente migliorabili. Ma va bene, magari prima o poi DF e la scienza faranno pace e torneranno a dialogare.
Tornando al libro, non ho paura di dirlo, è una bomba. È il libro che condensa tutto il Fabbri-pensiero, costruito e divulgato in un decennio e più di editoriali, podcast, interventi televisivi. Finalmente, messo nero (e blu) su bianco, se ne coglie la sua perfetta sistematicità. Il pensiero fabbriano è una teoria completa, con le sue ipotesi fondamentali, le dimostrazioni, i corollari. Un'interpretazione del mondo che - pur col dovuto cherry-picking, necessario ad ogni ambiziosa narrazione - è chiara e fila perfettamente.
Per ignoranza personale non so dire se questa teoria, dalla chiara ispirazione schmittiana, sia mai stata formalizzata altrove con questa nitidezza. Insomma non so se Fabbri ha dei maestri che ha semplicemente “volgarizzato”, o se ci siano altri in altre parti del mondo che abbiano scritto cose simili o identiche. Nell'Italia contemporanea non mi risulta, e in effetti la sua mossa editoriale capitalizza tutto il bagaglio di idee che è dietro alla scuola e alla redazione di Limes, Caracciolo compreso. Un libro che schematizza, quasi in forma manualistica, il glossario e l'immaginario che c'è dietro ogni riflessione limesiana e dominiana, e di tutta la schiera di lettori.
Il lessico fabbriano può sembrare ridicolo. Sembra quasi una sceneggiatura pensata per l’esclusiva recitazione di DF. È difficile leggere il libro senza immaginarsi DF che lo declama con tono solenne e grave, con quella sicumera di chi sta parlando di cose ovvie come la temperatura a cui bolle l'acqua, e non delle condizioni psicologiche in cui un impero decide di dichiarare guerra a un avversario.
[Parentesi descrittiva: se in Italia la parola Duce non fosse immediatamente associata a Benito Mussolini, con tutta la pedagogia e il riflesso negativo che sentiamo, Fabbri sarebbe serenamente un esemplare dell'idea del duce: un Ur-duce, un semplice, eterno, trasversale a tutte le epoche e latitudini, duce. L'astrazione di tutti i duci realmente esistiti, Benito Mussolini come avrebbe dovuto essere nell'Iperuranio.]
Lessico ridicolo e pomposo ma che si impone ormai nel dibattito. DF non ha paura di mettere quattro volte in una pagina parole come "post-storico" ed "economicistico", anzi rivendica (giustamente) queste parole perché ormai sono concetti comprensibili e angolari nella sua filosofia.
Lascio qui sotto qualche estratto, solo per mostrare la potenza delle teorie fabbriane. Per una trattazione più completa, rimando alla recensione (credo l'unica pubblicata finora, non si capisce perché) uscita su Dissipatio.
Chiudo con una preghiera. Non so che opinione abbiano di questo libro gli altri esperti e studiosi di relazioni internazionali; non so se è la stessa considerazione che i medici hanno dell'oroscopo. Dico che per noi lettori mediamente acculturati e interessati alle vicende del mondo questa narrazione è straordinariamente potente, chiara, ambiziosa e anche onesta. Sarebbe bello, insomma, che qualche esperto si prendesse la briga di leggere il libro e di "misurarsi" con esso e misurarlo a beneficio di noi tutti, anche solo per dichiararne definitivamente la totale chincaglieria.
p. 90:
La potenza pertiene soltanto a comunità anagraficamente giovani. [...] Realtà incomprensibile in Europa occidentale. Dove i giovani sono minoranza della minoranza e noialtri ne abbiamo un'idea peculiare. Quaggiù le generazioni più recenti hanno inevitabilmente assunto tic e idiosincrasie della popolazione anziana. Sono sagge, dunque profondamente post-storiche, minimaliste, utilitaristiche. Si battono per temi nobili ma estranei alla potenza, come l'ambiente, i diritti politici, il benessere materiale.
p. 181
La globalizzazione è sinonimo secco di egemonia americana, in latino pax americana. A determinare l'esistenza di un unico mercato planetario non è lo sviluppo tecnologico che consente ai flussi finanziari di attraversare la geografia, né alcuna antropologica predisposizione agli scambi.
La globalizzazione è conseguenza della superiorità della Marina statunitense [...]. Poiché nel mondo circa il 90% delle merci transita via mare, tale capacità, come capitato in passato ai romani e agli inglesi, ha trasformato il planisfero in un unico mercato.
La globalizzazione non afferisce in alcun modo al libero commercio. [...] Peraltro, il libero commercio (in ideologia: liberismo) non è mai esistito, né mai esisterà. Non c'è mai stato giorno sulla Terra senza che una comunità applicasse dazi ai prodotti di un'altra comunità. Così la dimensione tecnologica è strumento della globalizzazione, non la sua causa.
p. 184
La spiccata profondità egemonica degli americani si manifestò nell'abbandono del mercantilismo e nell'adozione di una politica economica eminentemente strategica. Passaggio obbligato di qualsiasi costruzione globale e marittima, allora inedito assoluto nella storia americana.
Dal 1991, alba della globalizzazione, Washington ha volontariamente aumentato il proprio deficit commerciale misurato in merci, passato dai 31 miliardi di dollari del 1991 ai 750 miliardi del 2016 (502 miliardi se si calcolano i servizi). [...]
Per la superpotenza condizione indispensabile e ingrata, perché priva di competitività molte industrie statunitensi. Negli anni Settanta gli americani distrussero volontariamente la manifattura nazionale, affinché potessero importare dagli altri, controllando inizialmente circa metà delle rotte marittime, poi tutte le altre. Da allora il Midwest, storica regione di prima industrializzazione, è detto "Rust Belt", a indicare la catena di montaggio arrugginita per assenza di utilizzo. Iniziativa perfettamente coerente per un impero che si avviava a essere globale, imitata in maniera sconsiderata negli anni Ottanta dalla Gran Bretagna, allora una media potenza, per velleità osmotica.
[nota personale: vi rendete conto? Dice che gli imperi scelgono di perdere competitività e di rendere infelici masse di popolazione per mantenere il proprio status. E nel libro ci sono decine di altre teorie tra cause ed effetti, nessi logici che ribaltano il senso comune e la percezione che tutti ci siamo costruiti.
Vera o non vera, questa roba è potentissima, è un modello suggestivo, innovativo, radicale nel senso che in due righe va dritto alla radice delle questione - cioè a quella che Fabbri pensa essere la radice delle questioni.]
Un suggerimento per i produttori e sceneggiatori Netflix che ci leggono: quando volete, anche tra una decina d’anni, ci piacerebbe una serie tipo “Unica” in cui fare finalmente luce sulla separazione tra Fabbri e Caracciolo. Alcuni occhi, da quel maledetto 14 gennaio, non hanno smesso di lacrimare.