Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
Questa introduzione circolarmente didascalica e morettianamente autoreferenziale è un tentativo di SEO, se vuoi ti puoi iscrivere qui sotto.
Guerra in Ucraina. Per qualche motivo tecnico e contingente, il Congresso degli USA ha deciso di ridurre il supporto finanziario all'Ucraina. Probabilmente non è una decisione definitiva, però - se capisco bene la situazione - è un segno che nell'opinione pubblica americana il consenso trasversale verso un supporto più o meno incondizionato alla guerra inizia a scricchiolare. Le elezioni presidenziali del novembre '24 si avvicinano, Trump continua ad essere un chad pazzo con un consenso spaventoso (spaventoso soprattutto per gli americani non trumpiani), e il fronte dem., come dicevamo anche in Tuffi/17, non è in grande spolvero soprattutto per il problemino di avere un frontman anzianotto.
Dico alcune cose sperando di non pestare cacche troppo grosse, verso la sensibilità del gentile pubblico ma anche verso me stesso visto che io stesso ogni mattina cambio non solo idea ma proprio umore sulla vicenda.
(Parentesi: non riesco più neanche a sperare di avere un'idea lucida sull'argomento. C'è una guerra e noi siamo ormai una parte in causa, una fazione; quindi esiste - giustamente, necessariamente - la propaganda di guerra, e in questa propaganda è impossibile sperare di costruirsi un'idea sensata, specialmente se uno non è disposto a chiudersi in biblioteca per tre anni a studiare le carte, e forse neanche così si riuscirebbe. Più probabilmente bisognerà aspettare un paio di secoli, quando anche i vincitori avranno desecretato il materiale pericoloso, e qualche storico di buona volontà si metterà a dissodare il terreno. Nel frattempo, rassegniamoci alla più realistica idea di poter avere soltanto un umore).
Questo per dire due cose, una ampia e rischiosa, l'altra ristretta e semplicemente giusta (infatti non la dico io ma la dice Erri De Luca).
In tutto questo dibattito sul finanziamento americano alla guerra in Ucraina, cioè in Europa, l'Europa non tocca palla. “We are facing an existential threat. Ukrainians are fighting with all their courage and capacities, and if we want them to be successful, then you have to provide them with better arms, and quicker” è una dichiarazione del rappresentante per gli affari esteri europei Josep Borrell, forse neanche una delle dichiarazioni più rappresentative, ma in cui emerge chiaramente il terrore impotente di chi è in balìa della prima folata di vento elettorale dall'altra parte del mondo e dice senza fronzoli "stiamo affrontando una minaccia esistenziale". Questo non per dire per l'ennesima volta che appaltare integralmente la propria sicurezza a un altro paese è un problema, per la democrazia ma addirittura per l'esistenza stessa dei paesi: lo so che lo sappiamo tutti quindi non lo ridico. Il punto è che in questo caso non si parla neanche di eserciti, quindi di uomini e lacrime, ma si parla di soldi e armi, che sono stampati e prodotti come le caramelle e le riviste. Noi, Europa, non abbiamo neanche la capacità di fare caramelle a sufficienza per difenderci, o difendere un paese che è alle nostre porte.
Anche qui, niente di nuovo, ma allora oltre a dare a Draghi il mandato per verificare la “competitività europea”, diamo anche l'incarico a qualcuno per verificare il nostro peso attuale nel mondo. Così poi, a valle del risultato, noi cittadini non avremo più scuse e dovremo iniziare a prendere atto, ragionare e agire in quella direzione. È arrivato il momento di "misurarci la palla", come si direbbe a Napoli.
Al festival di Emergency, il 2 settembre scorso a Reggio Emilia, a un certo punto Erri De Luca ha detto più o meno (cito a memoria):
“La guerra finirà quando ognuna delle due parti avrà capito di non avere più la forza per sconfiggere interamente l'altra.”Poeticamente, mi sembra una frase bellissima. Logicamente, forse è banale ma in questi termini non ci avevo mai pensato. Concretamente forse, vedi anche la votazione al congresso degli Stati Uniti, non manca moltissimo.
Parliamo adesso di una polemica nata infra-bolla e poi scalata a livello nazionale, la mancata laurea di Dario Fabbri. È un argomento forse di non troppo interesse, chi vuole salti avanti. Alcuni punti:
Dario Fabbri viene invitato in TV per raccontare le sue teorie sulla psiche dei popoli. Teorie bellissime, potentissime, che ci tengono incollati allo schermo e che nessun corso di laurea attualmente insegna. Il punto su Fabbri non è se sia un esperto certificato o meno, e d'altronde se Wanna Marchi fosse laureata la cosa non cambierebbe nulla. La grandissima leggerezza che ha commesso è pensare, con la sua visibilità, che prima o poi qualcuno non avrebbe voluto indagare sul suo passato - e lasciar scrivere nelle descrizioni degli eventi che è "Dottore in scienze politiche". È un problema di mera compliance, un problema formale, e però a quei livelli è un problema molto grande. Va benissimo voler lasciare nell'oscurità il proprio CV, è anche molto accattivante e lascia fantasticare su passati nella CIA o cose simili, però allora devi pagare una reputation manager che controlli tutte le didascalie degli eventi e faccia correggere ogni volta che scrivono "dottore".
Chissà come sarebbe andata se avesse subito risposto al primo tweet di Puglisi che aveva ragione, non era laureato e avrebbe subito chiesto di correggere la didascalia che lo fregiava del titolo. Ovviamente non lo sapremo mai, ma forse avrebbe evitato il montare di un caso che è finito a Le Iene e che si è chiuso con questa intervista su Dissipatio, tutto sommato elegante, ma che trasmette una certa sensazione di resa e abbattimento.
Consigliamo agli amici che ci seguono, giornalisti e giornaliste multipiattaforma, soprattutto giovani scrittrici e podcaster, di mettere già in conto l'invidia o la voglia di trasparenza del pubblico. Se ci sono informazioni ambigue o sbagliate su internet sul vostro conto, giocate d'anticipo, chiedete di rettificare pubblicamente, venite allo scoperto perché non c'è nulla di male. Prima o poi il Puglisi di turno lo beccate, ed è meglio affrontare lo spettro adesso che lo scheletro dopo.
La laurea, soprattutto per le facoltà umanistiche, è ormai solo il meccanismo che una società con troppe persone alfabetizzate si è dovuta dare per scremare tutti quelli che vogliono parlare di certi argomenti. Non dà accesso a redditi più alti, non garantisce un maggiore sapere dell'interessato. È come se al dibattito umanistico volessero parlare troppe persone insieme, quindi per comodità abbiamo stabilito che per prendere la parola bisogna alzare la mano, e di fatto riusciremo a dare la parola solo a chi è stato in silenzio con la mano alzata per almeno 5 anni. Ma se in qualche modo un tizio riesce a prendere il microfono, inizia a parlare e le persone lo ascoltano, non ha molto senso rimproverargli "eh ma tu non sei stato con la mano alzata 5 anni".
Chi dice adesso a Dario Fabbri che è un ciarlatano perché non ha la laurea, dopo averlo ascoltato e ritenuto un rispettabile interlocutore per anni, sta facendo la figura di chi ha discusso per anni con Wanna Marchi della reale efficacia della crema scioglipancia, e poi quando ha scoperto che non era laureata è andato su tutte le furie.
Rassegna: Bel pezzo su Esquire di Alice V. Oliveri che identifica un problema reale e probabilmente ancora poco esplorato: lo showbusiness delle lacrime. Non so se in fondo anche questa critica possa ricadere a sua volta in una lamentela woke, ma in questa fase fluida in cui facciamo le squadre mi piace pensare di no, anzi mi piace pensare che sia un pezzo contro la retorica della fragilità e dell'imperfezione, e in generale contro l’utopia antivaloriale e antigerarchica che va di moda nel mondo.
"Tutto ciò non ha nulla a che fare con il fenomeno della “cultura del piagnisteo” [...]. Siamo di fronte a un altro tipo di meccanismo che oltreoceano hanno già catalogato con alcune definizioni come vulnerability porn o sadfishing, ossia “quando qualcuno usa i suoi problemi per attrarre audience su internet”. Le lacrime sui social, e per estensione anche nella musica o nei prodotti audiovisivi che poi esplodono sui social, sono un ingrediente efficace. Talmente efficace da essere diventato l’accessorio principale non dei poveri disgraziati, che dai loro pianti dickensiani non guadagnano nulla, ma di tutta una categoria umana che sta ai vertici della popolarità e del successo. Miley Cyrus canta una preghiera di scuse nel suo I used to be young, dopo essersi affrancata da qualsiasi dipendenza emotiva comprandosi da sola i fiori, Bella Hadid posta foto dei suoi mental breakdown, oltre che dei suoi giorni di malattia, Kim Kardashian piange a dirotto nel suo The Kardashian e sua sorella Kendall Jenner usa la sua vulnerabilità per sponsorizzare un prodotto per l’acne, mettendosi a nudo davanti ai milioni di follower che anche stavolta, come sempre, avranno qualcosa da ridire sulla sua vita perfetta che perfetta non è."
Teche: