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Pubblichiamo uno scambio epistolare tra Gadda e Parise, avvenuto nel 1967 sulle pagine del Corriere della Sera. I due si interrogano sul logoramento della parola e l’eventuale fine della letteratura.
La fine della letteratura
Caro Parise,
credo che il deprecato, o forse da taluni auspicato evento della fine della letteratura, non possa risultare dalla monotona iterazione di tentativi insignificanti, di esperimenti non caratterizzati. Continuazione o fine, il ripetersi di fatti eguali non aggiunge nulla alla qualità di ciascuno di essi, alla loro discriminazione ragionata. Desiderare la continuazione, temere o disvolere la fine, è desiderare la varietà, la diversità del nuovo, di ciò che come idea o stil novo si distingue e si caratterizza. Quando la letteratura finirà, finiranno in lei gli esperimenti, le prove, gli aspetti, le strutture: e così dell’idioma di ogni nuovo o rinnovato scrivere e dire. Mille parlanti o scriventi possono confermare il valore della "invenzione" di un suono o di un segno, di un modo o di uno stile, o magari di una idea, ma non estorcere al nulla la sognata forma di una nuova idea, di una nuova frase. L'addizione è fatta di termini eguali e noiosissimi anche se momentaneamente ignoti, come paracarri nella nebbia. È vero che una certa fraternità di simili, se non di eguali, dà luogo vale a dire si "storicizza" in un ambiente, in una scuola, e da ultimo in una tetra, ecolalica e opprimente accademia. Gli stessi stilnovisti, gli stessi frequentatori dei giardini di Accademo o del portico di Aristotile, così inclini al tepore e alla reciproca salutazione collegiale, finiscono col desiderare una individualità che li discrimini come singoli, nel pensiero e nelle forme. Raffaello non si trattenne dall'attribuire a Platone l'aspetto del Vinci, ad Aristotile l'aspetto del Bramante. Nella vasta scuola della città sacra ad Atena i due sommi si "distinguono", assumono aspetti individui. Così alcuni letterati si sono collocati nel tempo e nell'opera come termini antagonisti, implorando dal proprio destino una attualità distintiva. Bonagiunta Orbicciani pare contrastare a Dante nel ventiquattresimo canto del Purgatorio anche con una tal quale ruvidezza, per poi conchiudere invidamente: e qua al più a riguardar oltre si mette / non vede più dall'uno all'altro stilo (cioè non distingue).
Non mi sembra ipotizzabile una "fine" della letteratura, quasi la letteratura fosse fenomeno per sé stante nel mondo. Infiniti altri fenomeni dovrebbero disparire di tra gli aspetti del mondo perché dispaia cioè finisca la "letteratura". Ti prego notare che il termine "letteratura" è tra i pochi da cui aborrisco. Se mi permetti di preconizzare lo scadimento e la fine del vocabolo e la perdurante vita del fenomeno, sarò lieto del tuo assentimento.
Carlo Emilio Gadda
Caro Gadda,
assentirei, ma dubito, dunque non posso. Fine è condizione assoluta, perentoria, massimo equilibrio; direi piuttosto stasi, sospensione dubitativa, crisi profonda sia dello strumento che dei modi dell'arte narrativa. Stasi, sospensione e crisi che minacciano non soltanto questa arte ma tutte le altre arti, nella loro accezione per così dire "artigianale", cioè di rapporto diretto e unico, individuale e discriminato, tra necessità e mezzi espressivi.
Nel caso della "letteratura" (le virgolette sottolineano il mio pieno assenso al grigiore impiegatizio del pensionato vocabolo) lo strumento è la parola, strumento per il quale tu auspichi una longevità per così dire "sperimentale", come sempre è sperimentale il decorrere naturale delle cose nelle loro oscure mutazioni ed evoluzioni (Darwin). Senonché la parola, sublime convenzione e razionale ed espressiva e comunicativa dell'uomo, ha subito, nella sua forma scritta, una violenta usura; usura che sorge e si sviluppa dalla universale usura di uomini e cose, sentimenti e valori, credenze e filosofie, a cui tutti assistiamo dai primi anni di questo secolo; e stava accelerando il suo prevedibile corso (industriale) secondo leggi di un contesto-consumo quotidiano, strettamente "fisico" e utilitaristico che non risparmia non dico l'uomo, ma nemmeno la sua essenza. Come quando un oggetto si consuma e viene sostituito con un altro di nuova forma e produzione non è tanto la sua esistenza fisica e nemmeno la sua funzione, quanto piuttosto la sua individuale, singolare essenza a subire il logoramento e la fine.
Su questo concetto di logoramento e di consumo si fondano le mie ipotesi di dubbio. Prova a pensare, in una società-mondo come la nostra, di rapidissime informazioni, di mezzi espressivi e comunicativi proporzionalmente o progressivamente rapidi e centrifughi e, spesso, come nel caso delle immagini cinematografiche, non meno affascinanti del mezzo verbale, alla sorte della parola scritta e del libro che la racchiude. È una sorte che sempre più fatalmente si apparta in laboratori di ricerca o analisi o catalogazione o programmazione del produrre, cioè proprio in quella "letteratura" da cui mi pare tu aborrisca. Infine pensa a quei molti strumenti o bisonti estinti che l'uomo e la natura hanno abbandonato dietro di sé per non servirsene mai più e che rappresentano, al tempo stesso, la testimonianza e il mistero della loro fine.
Goffredo Parise
Corriere della Sera, 8 ottobre 1967