Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
Questa introduzione circolarmente didascalica e morettianamente autoreferenziale è un tentativo di SEO, se vuoi ti puoi iscrivere qui sotto.
Premesso che presto parleremo di soldi, iniziamo ad assaporare un antipastino tangenziale. Sul podcast Odd Lots di Bloomberg (gentilmente consigliatomi da KriticaEconomica), in una puntata recente Josh Wolfe ha detto una cosa che mi è rimasta impressa: tutti gli investitori si chiedono quale sarà il prossimo settore economico che esploderà (the next-10-billion-industry). Ovviamente nessuno può saperlo, però un buon indicatore da seguire è: quello che i genitori dicono rovini il cervello dei figli. Il curriculum è molto promettente: negli anni '60 il rock’n’roll, poi i computer, poi internet, poi i videogiochi. In effetti sembra esserci una certa ricorsività e capacità predittiva. Da cui l'invito ai lettori: se qualcuno è genitore, cerchi di ascoltarsi mentre sgrida i figli e scriva alla redazione di Tuffi i propri auto-insight.
Nei paesi in via di sviluppo è esperienza comune vedere su una stessa strada grandi differenze di velocità. Sul lato veloce della carreggiata sfrecciano i SUV, degradando verso il lato lento ci sono le macchine più vecchiotte, gli scassoni, fino ai carretti trainati dai cavalli e i pedoni che camminano o fanno autostop. I sorpassi sono frequentissimi e durano pochi attimi.
Con ottima approssimazione, ognuno di questi personaggi rappresenta il proprio censo, e quindi l'enorme divario tra strati sociali. Coefficiente di Gini: molto alto.
Dietro casa mia, a Roma, a fine 2004 Walter Veltroni inaugurò la Galleria Giovanni XXIII, anche conosciuta con l'epiteto western-futuristico "Passante a Nord-Ovest". Ci sono sempre stati cartelli con limite di velocità a 70 km/h, ma nessuno li ha mai rispettati - così come su tutta la tangenziale, su cui il passante sfocia.
Quest'anno qualcosa è cambiato. Come spesso accade, è il più informato tra i cugini a dare la notizia, più o meno in primavera, poi la voce continua a girare e ad arrivare da altre parti. "Hanno iniziato a fare le multe, hanno acceso i tutor". Cugino informato raramente sbaglia.
In galleria il paesaggio del traffico è radicalmente cambiato. È come entrare per qualche chilometro in una piccola società comunista. Le macchine che sopraggiungono dalla tangenziale a qualsiasi velocità appena entrano si omologano al limite. Di primo acchito (si dice acchito, con una sola 't', lo so che suona incredibile ma è così) uno direbbe: era ora, adesso finalmente si guiderà in maggiore sicurezza.
Il punto è che non sono sicuro. Nei paesi del primo mondo 70 km/h è una velocità a cui tutti possono arrivare. Eppure rimane, nell'uomo in generale e in tutti gli uomini particolari che guidano lì dentro, un'inestirpabile voglia di superare. Quindi siamo tutti lì, tra i 68 e i 73 km/h, che ci guardiamo minacciosi negli specchietti e appena becchiamo uno che va a 65 eccoci! pronti a intraprendere lunghissime manovre, con freccia ben visibile a sinistra, per guadagnare preziosi centimetri sul percorso finale; mentre chi viene superato si accorge solo con un pizzico di ritardo dell'umiliante angheria che sta subendo, e allora sta lì per tutti i minuti della manovra a covare la rabbia del superato in pit lane, e non vede l'ora di beccare a sua volta un altro superabile.
I toni di questo racconto sono volutamente colorati, ma credo ci sia un fondo di verità nella metafora. Ogni volta che entro in galleria penso a un libro che non ho letto ma che vi consiglio (troppo comodo consigliare i libri letti): Social limits to growth, di Fred Hirsch. Il titolo, del 1976, ricalca il più famoso "Limits to growth" del 1972, pietra angolare dello sviluppo sostenibile, in cui gli autori (i famosissimi Meadows et al.) affermavano che fosse impossibile avere una crescita economica infinita in un pianeta finito. Hirsch parte da questa intuizione e si rivolge però ai limiti sociali, quindi percepiti più che oggettivi, della crescita economica e soprattutto della soddisfazione che questa crescita può generare. Mi pare di capire che Hirsch sostenga che anche quando avessimo un welfare perfetto e due dottorati a testa, saremmo comunque insoddisfatti. E la causa di questa insoddisfazione è presto detta: noi non vogliamo solo stare bene, ma vogliamo - soprattutto dopo una certa soglia di bene - stare meglio di qualcun altro. E più stiamo tutti bene allo stesso modo, più sarà diffusa nella popolazione la frustrazione nel non poter stare meglio degli altri. Nel non poter superare.
Proposta: riprendiamo a fare tutte le domande personali e interessanti che il galateo woke ci ha inibito dal fare, e invece smettiamo di porre quella insopportabile domanda inquisitoria (un po' classista e un po' diffidente) che appena uno dice ad esempio "sono di Roma" allora noi subito "ma Roma Roma?", "ma Roma città oppure un po' fuori?" e lo stesso con tutte le altre città. Lasciamo che sia l'interlocutore, eventualmente e spontaneamente, a specificare i confini da cui sente di provenire, e a chiarire - o non chiarire - se secondo lui Terni è ancora Roma.
Va bene essere in un momento difficile, avere una giornata no, essere frustrati e scontenti della propria vita, ma non si dovrebbe mai arrivare alla cattiveria di comprare il giornale al supermercato invece che in edicola.
Teche:
Usare il verbo 'fare' quando si parla di viaggi (es.: “la Corsica l’ho fatta nel 2013”) è un livello di consumismo turistico un po’ mostruoso. Cerchiamo di rimanere ai classici “sono stato”, “sono andato”, “ho visitato”.