Questo è Tuffi! Demordiamo.
Io sono Vittorio Ray, questa è Tuffi, la newsletter de Il Tuffatore.
Questa introduzione circolarmente didascalica e morettianamente autoreferenziale è un tentativo di SEO, se vuoi ti puoi iscrivere qui sotto.
Quando sento qualcuno parlare male di Netanyahu, metto mano alla pistola.
Anzi vorrei parafrasare uno slogan femminista quasi sempre fuori fuoco (“[personaggio funesto, ad esempio Filippo Turetta] non è un caso isolato, ma il figlio sano del patriarcato”) per tornare a parlare di Israele.
Sono stanco di chi parla male di Netanyahu. Ormai lo fanno tutti, dai liberali glamour “sionisti presentabili” ai più ostinati e impresentabili fiancheggiatori (Bruno Vespa, Paolo Mieli, etc.). Come se il problema fosse veramente Netanyahu, come se Netanyahu fosse la mela marcia.
Negli obiettivi essenziali e strutturali della Germania dell‘800 non c’era quella di sterminare gli ebrei. L'azione di sterminio di una parte della popolazione non era automaticamente deducibile dal concetto di “Germania”. Hitler era, in qualche modo, una mela marcia, una scheggia impazzita di uno stato come tanti. Certo è stato votato, ha convinto molti connazionali di quelle idee, ma lui e quelle idee sono state una parentesi relativamente breve nel più grande e ben più variegato insieme di “storia e idee della Germania”.
Viceversa il caso di Israele. La definizione di Israele è “stato degli ebrei” - in un territorio dove non abitano solo ebrei. Israele in 78 anni di vita ha avuto periodi più cruenti e più amichevoli, di autodifesa e di attacco, di progressismo e di conservatorismo. Ma il nucleo centrale di Israele, la sua essenza, la sua definizione da vocabolario è la seguente: “stato degli ebrei e soltanto degli ebrei, in una terra dove vivono anche altri e che non possono e non devono essere integrati nello stato degli ebrei”. Netanyahu è la lineare realizzazione del progetto sionista, è il figlio sano di Israele. Magari è più sadico dell’israeliano medio, magari non tutti gli israeliani vogliono fisicamente uccidere tutti i palestinesi come alcuni ministri del governo, magari alcuni sperano che i palestinesi rinuncino volontariamente alla loro terra e qualche paese arabo li assorba in qualche megatendopoli.
Il problema non è Netanyahu. I palestinesi non hanno combattuto 77 anni perché in Israele ci fosse un governo più liberale, o che facesse entrare più briciole nel lager di Gaza. Hamas e tutta la resistenza palestinese non fanno quello che fanno perché Netanyahu è antipatico o ha il ghigno da cattivo. Lo fanno per ricordare alla modernità (per 'modernità' qui intendiamo un’umanità che ha metabolizzato l’uguaglianza dei diritti dell’uomo) che da 77 anni sulla terra esiste uno stato intero programmaticamente antimoderno, e lo è su una terra che si è fatto assegnare da una potenza coloniale quando Pippo Baudo aveva 12 anni. E ogni attimo che noi contemporanei viviamo sapendo che da qualche parte nel mondo esiste questa cosa, è uno spillo nel cuore.
Quando sentite qualcuno che parla male di Netanyahu, non vi fidate.
Rassegna stampa: sulla rivista Il Nemico è uscito uno straordinario reportage di un volontario italiano andato a fare da scudo umano in Cisgiordania, qualche settimana fa. Rubo dei lunghi pezzi.
“Oggi è venerdì. È il giorno santo per i musulmani. Vuol dire che nelle città palestinesi è difficile trovare un negozio aperto, o un servizio di trasporto. Il venerdì si prega, ci si riposa, e si organizzano le manifestazioni contro l’occupazione militare israeliana. Fino a qualche anno fa, di venerdì, c’era l’imbarazzo della scelta rispetto a quale manifestazione seguire. La preparazione era lunga, specialmente nelle grandi città, dove spesso se ne organizzava anche più d’una, a Jenin, a Nablus, Tulkarem, Al-Khalil, Al-Quds, o nei villaggi più piccoli, a ridosso del muro, o di qualche nuova colonia; o ancora a Gaza, prima del 7/10. Si usciva la mattina, si finiva di casa in casa a bere zuccheratissimo shai alla menta con i partigiani palestinesi, si parlava della giornata a venire, ci si coordinava, e poi si camminava per ore sotto al sole.
Spesso la manifestazione finiva con una sassaiola contro l’esercito d’occupazione, il quale rispondeva sparando sulla folla di shabab, la gioventù resistente. Ogni settimana ci scappava almeno un morto, destinato a diventare uno dei tanti martiri della resistenza palestinese. A volte i morti erano decine, come decine erano, di norma, anche gli arresti. Il 40% dei palestinesi maschi è stato almeno una volta in carcere, il tasso di condanna nei processi contro i palestinesi è del 99,7%,1 quello degli israeliani denunciati dai palestinesi è invece solo del 1.8%.2 I palestinesi possono inoltre essere detenuti preventivamente per 6 mesi,3 rinnovabili illimitatamente, anche senza alcuna incriminazione o ragionevole sospetto, cosa che capita spesso a chi partecipa a una manifestazione, o a chi ha la sfortuna di essere nato su un terreno finito nel mirino dei coloni.
[…]A Beita siamo passati nel contesto di un viaggio in Palestina. O sarebbe meglio dire un viaggio nei territori occupati da Israele in Cisgiordania, nelle briciole scollegate che rimangono della terra assegnata come Stato ai palestinesi dagli accordi di Oslo. Quello che segue perciò è l’ennesimo resoconto di un viaggio in Palestina, l’ennesimo tentativo di fissare nero su bianco la storia recente di un popolo, il suo massacro, l’apartheid a cui è soggetto, l’oppressione più documentata della storia dell’umanità, che continua a peggiorare e aumentare d’intensità, nonostante i libri, i documentari, i film, i racconti, i fumetti, gli articoli, le prese di posizione di personaggi celebri e influenti. E che non riguarda un popolo lontano sul quale l’occidente non ha alcuna influenza, ma una costola di esso, il prodotto dell’irrisolto antisemitismo occidentale militarizzato per colonizzare il Medio Oriente, con la scusa di emendare i peccati della Seconda Guerra Mondiale. È perciò il resoconto dello sconforto e del dilemma di provare ancora una volta a parlare di Palestina, quando nonostante i fiumi di parole e di pellicole la situazione non fa che accelerare in brutalità, la Cisgiordania continua a dissolversi a ritmo crescente, mentre Gaza vive, può darsi, gli ultimi giorni da territorio palestinese, in un cumulo di macerie, cadaveri e tende di fortuna.
Si potrebbe perciò parlare ancora una volta di come, dal 7/10, la situazione palestinese sia diventata catastrofica. Di come le operazioni di insediamento di nuove colonie in Cisgiordania abbiano preso una velocità senza precedenti all’indomani dell’attacco di Hamas, del livello di impunità e di ferocia con cui operano i coloni, di come la loro società si stia espandendo guidata da fanatici religiosi sovvenzionati e armati fino ai denti, abituati a una economia di guerra che non potrà arrestarsi neanche con la conquista di Gaza e della Cisgiordania, dei progetti della Grande Israele e del suo Lebensraum che già la proietta in Libano, in Siria, e magari un giorno anche in Egitto, in Giordania… di tutto questo e di tante altre considerazioni allarmanti e angoscianti si potrebbe parlare ancora, ma lo hanno già fatto in molti e più autorevoli, le informazioni e le considerazioni sono disponibili a chiunque se ne voglia interessare, e un viaggio in Palestina, sebbene costringa a confrontarcisi, non offre alcuna prospettiva più ampia di quella che non possa essere abbracciata da una serie di ricerche su internet. E allora che senso ha continuare a parlarne? Che senso può avere avuto anche esserci andati di persona, oltre al proprio tornaconto personale nel poter dire di esserci stati, i punti militanza riscossi, e la pace dell’anima di chi si può raccontare di aver quantomeno provato a fare qualcosa? […]
Perciò che ruolo può avere ancora l’attenzione internazionale? La nostra presenza sul territorio, il nostro sguardo, le nostre critiche, i nostri tentativi di boicottare, delegittimare e condannare il progetto sionista di Israele? Offrono un po’ di conforto le parole di Ilan Pappé, storico israeliano anti-sionista, che sebbene dipinga un quadro sconfortante, ricorda, con sensibilità da storico, che è proprio quando i regimi diventano così spudoratamente incuranti dell’opinione internazionale e non si preoccupano neanche più di nascondere i propri crimini all’esterno, è proprio allora che iniziano a crollare, anzitutto da dentro.
[…]Qualsiasi forma di resistenza pacifica viene repressa, spesso violentemente; qualsiasi forma di resistenza violenta o armata incontra invece una rappresaglia israeliana di una violenza molto superiore, che è difficile distinguere dalla cieca vendetta. Si tratta invece, per ora, soltanto di resistere, e di farlo il più a lungo possibile, guidati da una nuova speranza, che Israele collassi sotto la spinta della sua stessa onda distruttiva, che il martirio degli shahid palestinesi non sia invano, ma costringa Israele a mostrare la sua vera natura, costringa il progetto sionista a realizzarsi per quel che è sempre stato, un progetto di colonizzazione occidentale a sfondo razzista e teocratico. Si tratta di raccontare ancora, fino allo stremo, la storia dei palestinesi, di tutti i palestinesi, ciascuna piccola storia di oppressione quotidiana e tragedia, darle dignità, renderla visibile, non perché serva a qualcosa, non con il fine di impietosire le potenze occidentali, o di invertire la rotta, ma per testimoniare di un’umanità diversa, che si esprime nella solidarietà con i popoli oppressi, anche e soprattutto quando sembra che non serva a nulla.
Maicol&Mirco sul manifesto del 23/5/’25
Non sono affatto ottimista su questa specie di micro-ondata di micro-indignazione. E soprattutto, stiamo attenti a non illuderci: non basta avere ragione perché i cattivi si arrendano. Il salto dal piano logico a quello ontologico non è né immediato né garantito.
Tuttavia, la prospettiva più realistica, come dice Ilan Pappé, mi pare quella del crollo psichico interno alla società israeliana (magari accelerato da pressioni esterne). Noi moderni in fondo crediamo che tutti gli esseri umani abbiano un corredo genetico di umanità, che prima o poi riemerge.
Rassegna video: se in settimana non avete serie da guardare, allocate 41 minuti per vedere questo piccolo manifesto/filmino amatoriale di Karem from Haifa (che in realtà è mezzo toscano).